sabato 27 gennaio 2018

Un quarto d'ora per il caffè [DOWNLOAD DISPENSE APPUNTI RIASSUNTI PDF GRATIS]


Ricordo da bambino di aver preso coscienza molto presto della presenza sulla terra, di esseri umani con la pelle diversa dalla mia. Un colore diverso. Credevo fosse marrone scuro. Ce n’era uno simpaticissimo che guidava una macchina color verde petrolio. Arrivava a casa di mio padre a tutta birra con il baule pieno di calzini di ogni colore e taglia. Scendeva, chiedeva un bicchiere d’acqua, e per più volte ricordo di averlo visto dare una mano a mio padre. Un sorriso grande, denti bianchissimi. Mio padre e mia madre spesso per ringraziarlo della cordialità acquistavano qualcosa e lui andava via felice. Questo sorriso unito alla gentilezza sua e dei miei genitori, hanno annaffiato il seme dell’accoglienza. Il frutto del razzismo e della paura in me non è mai nato. Non sono mai esistiti per me gialli, neri, bianchi. C’erano e ci sono persone. Le differenze più che nel colore, le ho sempre trovate nel sorriso. Vero, finto, forzato, maligno, genuino.

Tutt’ora nella scuola di mia figlia, c’è un bambino di colore. Suo padre fa l’ingegnere e parla correttamente 3 lingue più la sua d’origine. Voglio dire, per furbo quale sono, so quasi tutto dell’italiano e quasi nulla dell’inglese. Però per la stragrande maggioranza della gente, io sono in gamba e lui è un negro. Ricordo di una signora che venne a casa mia e per casualità arrivò il ragazzo dalla macchina verde. La sua semplicità lo portò a stringere la mano alla signora che ricordo molto bene, si guardò subito il palmo della mano per vedere se era rimasta tinta di marrone. L’ignoranza. Leggo di un medico che lavora alla Guardia medica di Cantù. Un certo Andi Nganso. Un medico di colore. 30 anni, si è fatto le ossa lavorando per la Croce Rossa in diversi centri di accoglienza per migranti, dall’hinterland milanese a Lampedusa, infine a Cantù, nel Comasco, dove da un anno lavora per il servizio di continuità assistenziale. Pochi giorni fa ha avuto un piccolo inconveniente con una paziente. Una signora di una sessantina d’anni, che ha lasciato l’ambulatorio spiegando che non si sarebbe mai fatta toccare “da un medico negro”. Vuoi mai che resti macchiata. Voglio dire, se hai un problema a un occhio e il medico ti tocca, come fai a raccontare in giro che sei stato visitato da un medico di colore e non hai preso un pugno in faccia? Avrei riso tanto da dover essere ricoverato anche io. Solo che io di Andi Nganso non avrei paura. Il suo sorriso mi ricorda quello del ragazzo con la macchina verde. L’ignoranza fa più disastri di un’azione cattiva volontaria a volte. Sparita la signora, Andi ha subito scritto la sua lamentela su un social, andandoci anche non troppo leggero. Ringraziando la signora per avergli regalato un quarto d’ora in più per il caffè, l’ha poi offesa. In fondo voglio dire. Uno a uno. Palla al centro. Si perché nel 2018, mi spiace ma non si può più accettare una situazione del genere. Originario del Camerun e ormai italiano d’adozione, dato che è arrivato qui 12 anni fa per motivi di studio e ora vive a Sesto San Giovanni, stiamo parlando di un medico italiano. E anche se non lo fosse, italiano intendo, resterebbe comunque un medico. La signora non credo avesse avuto un gran bisogno di cure se il colore della pelle di Andi l’ha fatta correre via. Dovrebbe dire grazie anche lei per essersi risparmiata i soldi del Ticket. Dovrebbero ringraziare anche le persone presenti. Una persona in meno, fila più corta, attesa minore. A casa prima. Insomma, per un gesto di maleducazione siamo a dire grazie. Vuoi per simpatia, vuoi perché ci arrabattiamo a giudicare chi riempie i Tg con la cronaca nera, poi siamo li a scappare di fronte a un medico. Ah già, un medico nero. Come l’inchiostro, come la pece, come la notte, come il buio. Come il cuore di chi non ti accetta, di chi non ti vuole. Siamo nel 2018, sveglia. Non ne ho più voglia di questa gente. Voglio tornare bambino. Voglio rivedere quella macchina verde petrolio. Voglio rivedere quel ragazzo sorridente che si era appioppato da solo un improbabile nome italiano. Voglio vedere la stretta di mano tra lui e mio padre. Voglio rivedere nella gente l’amicizia e l’accoglienza. Voglio quello che non esiste probabilmente. E questo mi fa stare male. Andrò al pronto soccorso, sperando di non trovare il fila la signora di Cantù o dovrò andarmene. Io in fila con un razzista non ci voglio stare.
Franco Quadalti

https://drive.google.com/file/d/1umtchIJxFZtlV3oHx--Qol_-qRArIhgE/view?usp=sharing

venerdì 26 gennaio 2018

Il giorno della memoria [DOWNLOAD DISPENSE APPUNTI RIASSUNTI PDF GRATIS]


Il titolo dice tutto. Basterebbe questo. Non è una frase che può essere fraintesa. Non è un nome che ti potrebbe ricordare almeno tre persone che conosci. È più come il titolo di una canzone. Tu leggi “Imagine” e ti viene in mente John Lennon. Tutto qui. Non c’è altro da dire. Il 27 gennaio si è celebrata una ricorrenza internazionale per commemorare le vittime dell'Olocausto. È stata così designato dalla risoluzione 60/7 dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite del 1º novembre 2005, durante la 42ª riunione plenaria. Non è una cosa da poco. Proprio per nulla. Per dire qualcosa di più, in terza media come esame di fine anno, ho portato la seconda guerra mondiale. Ho passato diverse settimane a leggere e documentarmi su quel pezzo di vita, o meglio, su quel tratto di morte. Come detto, leggi “Imagine” e inizi a canticchiare la canzone, così, in automatico.

Allo stesso modo, leggi sul web “oggi è il giorno della memoria” e posti il cancello del campo di concentramento più famoso del mondo, quello di Auschwitz, su tutti i social ai quali sei iscritto. Certo. È così che si fa. Fino al giorno prima leggi commenti improponibili a domande insensate. Dribbli foto e selfie di dubbio gusto, scansi barzellette alle quali non rideresti nemmeno sotto tortura. Poi, come d’incanto, arriva il 27 gennaio e boom. Tutti di colpo sanno di Auschwitz. Tutti piangono. Tutti sono sconvolti dalla tragedia. Se fai loro una domanda ti sanno pure rispondere sulla questione, sempre che il Wi-fi funzioni correttamente. L’ipocrisia credo sia tra le dieci piaghe del mondo. Forse anche tra le prime cinque. Sono alterato, è vero. Forse perché ci ho studiato sopra, ho letto, mi sono documentato. Ho parlato con persone che ci sono state, in quel tempo. Non ho pianto, ma ho riflettuto. E lo faccio anche adesso. Potrei anche aprire una parentesi e ricordare al popolo del web che spesso si ricorda il campo di concentramento di Auschwitz ma non si nomina mai quello di sterminio di Birkenau. In quel campo hanno perso la vita più di un milione di persone. Però non fa notizia. È così bello il cancello di Auschwitz. Vuoi mettere? Il paragone non regge. Poi con quella scritta sopra “Arbeit macht frei”, il lavoro rende liberi. Viene da sorridere. Purtroppo. La gente non le sa queste cose. Esce di casa e pensa al proprio orticello. Saluta a malapena le persone. Stringe amicizie inutili per poi trattare male le persone vicine. Si lava la faccia al mattino per mettersi la maschera e quando arriva il 27 gennaio, parla. Non lo so che sta succedendo alle persone. A volte credo che sarebbe meglio che quella data fosse una cosa per pochi. Mi escludo eh sia chiaro. Dio non voglia che qualcuno pensi che mi merito di poterne parlare. Per pochi, per quelli giusti. Ecco, la parola perfetta. Per i giusti. Quelli che sanno che significa la sofferenza e proprio per questo, non ne parlano. La comunicano con gli occhi, il 26 gennaio come il 27, o il 28, di ogni mese e non solo gennaio. Dai ragazzi, è un cancello. È un simbolo di un luogo che non esiste più. È un fiore lasciato dove si sono spente delle vite, tante. Un fiore troppo in vista. Un luogo si da custodire, ma allo stesso modo, un luogo da tenere lontano dagli occhi. Non è vedendo le baracche di quel campo che si pensa a chi ci ha passato gli ultimi giorni. Il rispetto per i morti, lo si porta tendendo la mano ai vivi. Ricordando che chi non c’è più, ha smesso di soffrire. Chi è ancora qui, invece, aspetta un giusto che dica una parola buona. Lasciate stare i cancelli.
Quando decidete di ricordare la Shoah, fatelo in silenzio. Abbracciate qualcuno senza farne pubblicità.
Siate giusti.
Franco Quadalti.

https://drive.google.com/file/d/1nvnS6Zw_rINQJYxVbmylR1jVFsrnLNfY/view?usp=sharing

sabato 20 gennaio 2018

La guerra in uno scatto [DOWNLOAD DISPENSE APPUNTI RIASSUNTI PDF GRATIS]


Se alla fine della mia vita, riuscirò ad insegnare un terzo di ciò che i miei figli ogni giorno sanno insegnare a me, potrò dire di essere stato un buon padre per loro. I bambini vedono cose e sanno cose che gli adulti hanno dimenticato. Il coraggio per dirne una. La determinazione, l’orgoglio, quello buono, la tenerezza e l’amore. Eppure tutti siamo passati da lì. Tutti, una volta, lo siamo stati. Bambini. Chi più e chi meno ha vissuto l’infanzia nel modo in cui doveva, in cui poteva. Poi la vita ti cambia. Una mattina ti svegli e ti sei dimenticato di essere un bambino e diventi qualcos’altro. Spesso un adulto, difficilmente un uomo o una donna in quanto persone vere. Spesso diventiamo quello che abbiamo potuto, non quello che dovremmo. Ci sono bambini che hanno visto giocattoli, amici, la scuola. Ci sono bambini che hanno visto assenze, deliri.
Altri, tanti, troppi, hanno visto la guerra. La guerra c’è sempre, ovunque. Aprire un libro di storia e leggere della seconda guerra mondiale fa pensare a una vita fa. Fa quasi credere che la fine di quella guerra abbia sancito la pace in tutto il mondo. Invece no. Di quella guerra è stato scritto di tutto. A volte ci sono pagine con piccole storie di grandi imprese. Altre facce di una medaglia troppo pesante. Troppo costosa, ingombrante. Una guerra che finisce con una bomba atomica. Un “basta così” che si trascina da allora nei ricordi della gente. C’è una foto di due bambini, una foto del 1945, scattata dal fotografo Joe O'Donnell. Una foto chiaramente in bianco e nero, sbiadita. Di nitido non c’è neppure il significato a prima vista. Due bambini. Due fratelli. Uno stretto in una fascia, sulla schiena dell’altro, il maggiore che pare avere una decina d’anni. Impettito il ragazzino, lo sguardo duro. Il fratello minore sembra dormire. La testa piegata su un fianco come ho visto fare anche da mio figlio ai tempi in cui lo facevo addormentare in fascia mentre giravo per il centro commerciale guardando le vetrine dei negozi. Qui non ci sono negozi, non ci sono vetrine. Non c’è un padre che addormenta un figlio. C’è l’epilogo di una guerra con cui fare i conti. Il bambino non sta dormendo. È morto. La guerra l’ha portato via. L’ha ucciso e insieme a lui ha ucciso anche il bambino che albergava dentro al fratello che con una dignità più potente di quella bomba che ha messo fine a tutto, lo sta portando a cremare. Leggo da un’intervista al fotografo, che il bambino non ha detto una parola. Uno sguardo fisso. Come a cercare una via d’uscita. Come a cercare un punto lontanissimo da lì. Perché “lì” c’è la guerra, c’è il fratello senza vita, c’è lui da bambino a fare cose che nemmeno un adulto dovrebbe mai fare. Cresci con uno schiaffo. La vita è un gioco davvero strano. Assurdo. Ti dici che non può essere tutto li. Nella fame, nella devastazione. Rischi di spegnerti da un momento all’altro e spesso per scelte altrui. Eppure continui. Non si può guardare una foto del genere e non sentire dolore. Non si può vedere quella foto e non pensare che ancora oggi, nel 2018, quella foto accade. Accade quel dramma, in tante parti del mondo. Non so che fine abbia fatto quel bambino. Dieci anni allora, più di una settantina adesso dovesse essere ancora vivo. E se non dovesse esserlo, se ne sarebbe andata con lui quella sofferenza. Si morde un labbro mentre le fiamme portano via il corpo del fratello. Sanguinano. E l’anima ancora di più. Muoiono entrambi in quella guerra. Muoiono entrambi i bambini. Uno diventa un uomo forse. O un testimone di un delitto atroce. O non so cosa. So che i due fratelli quel giorno se ne sono andati entrambi, altrove, in una foto a colori dove continuano a giocare come il mondo fosse un luogo di pace.
Franco Quadalti
https://drive.google.com/file/d/1F5DhIDjVcXkmDqpPnWgG6CA61uJ-7F_u/view?usp=sharing

Il bambino di ghiaccio [DOWNLOAD DISPENSE APPUNTI RIASSUNTI PDF GRATIS]


A scuola andavo bene, più che bene anzi. Ma non mi piaceva affatto. Avevo un approccio strano con la scuola in effetti. La paura di ripetere un anno era talmente grande, che studiavo di continuo. Ma onestamente ricordo le mattine ad aspettare l’autobus perennemente in ritardo, le attese al freddo, le corse in bicicletta sotto la pioggia per arrivare in tempo alla fermata. Leggo di un bambino, Wang Fuman, 8 anni, che ogni mattina fa 4,5 km per raggiungere la sua scuola di Zhaotong Cityuna, zona rurale dello Yunnan cinese. Tanta stima. Wang fa parte di quei bambini definiti “lasciati indietro”. I suoi genitori lavorano a Pechino distante 2 mila km dalla provincia di Zhaotong dove Wang vive con la nonna e la sorella maggiore. In Cina, se ne contano ben 61 milioni.

Wang quindi non si scoraggia e ogni mattina, un’ora prima dell’inizio delle lezioni, si arma di pazienza e coraggio e percorre tutta quella strada. Non lo ferma neppure il freddo. La foto di Wang appena arrivato a scuola dopo la sua “passeggiata” di oltre 4 km, fa il giro del mondo. Guance rosse, occhi lucidi ma vivi e ghiaccioli nei capelli. Il ritratto del coraggio e della determinazione. Certamente non troverete mai una mia foto in quelle condizioni nemmeno ai tempi delle partitelle a calcio con gli amici. Wang batte tutti. “Non è faticoso”, dirà intervistato da una Tv locale. Non è solo simpatia. Lo scorso giugno, ben 4 bambini tra i 5 e i 13 anni abbandonati dai genitori hanno commesso suicidio ingoiando un pesticida. La Cina, seconda potenza mondiale, come tutte le medaglie ha due facce. Quella dei bambini lasciati soli. Quasi 250 milioni infatti, sono i genitori costretti a lasciare i figli per andare a lavorare lontano. Wang vive con la nonna. Wang cammina, corre, e va scuola. Sorride. E questa volta voglio che sia una storia con il sorriso a rappresentare la cronaca di tutti i giorni. Io non lo avrei seguito. Avrei detto...vai tu, poi mi passi i compiti. Al suo ritorno l’avrei anche preso in giro. Però Wang è tosto. Mi piace. 8 anni e un futuro che non potrà mai spaventarlo. Con il sorriso si fa tutto. Lui lo sa. Non credo sia solo una questione “di necessità virtù”. Il segreto lo sa lui. Nei suoi occhi sorridenti. Se fosse facile, lo farebbero tutti. Ma difficile non è impossibile.
Questa storia, ha un lieto fine. Wang, il bambino di ghiaccio, è stato fortunato. La sua storia è arrivata agli occhi delle autorità locali. È partita una raccolta fondi per lui, e al padre è stato offerto un lavoro nella sua città natale. Wang avrà quindi il papà a casa e potrà continuare a camminare verso la scuola, ma con un sorriso in più.
Franco Quadalti

https://drive.google.com/file/d/1Gcwu3uecPZBIT8m911UMQIVGw0l_cWp1/view?usp=sharing

Regime patrimoniale dei coniugi [DOWNLOAD DISPENSE APPUNTI RIASSUNTI GRATIS DI GIURISPRUDENZA]


Il matrimonio è un negozio giuridico con cui due soggetti di sesso diverso costituiscono una comunione di vita materiale e spirituale. In mancanza di una definizione codicistica, la nozione si ricava dalla legge 989/1970 in materia di divorzio. Tale comunione di vita tra due soggetti impone una regolamentazione dei loro rapporti patrimoniali. La riforma del diritto di famiglia  - l.151/1975 -  ha posto come regime patrimoniale legale dei coniugi la comunione. Ciò significa che, in assenza di un diverso accordo tra le parti, il regime patrimoniale quale disciplina dei diritti e dei poteri dei coniugi in ordine all’acquisto e alla gestione dei beni, è regolato dalle norme in tema di comunione legale, a differenza della disciplina dettata dal codice civile nella sua originaria formulazione, ispirata ad una visione gerarchica dei rapporti di famiglia, in cui il regime legale era quello della separazione dei beni.

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Regime patrimoniale dei coniugi 
https://drive.google.com/file/d/1x-acFiizFQuwr9zv3hiKm0voTg8z_jBO/view?usp=sharing

Fare del male per gioco [DOWNLOAD DISPENSE APPUNTI RIASSUNTI PDF GRATIS]


A Napoli continua la violenza giovanile nelle strade. "Violenza assurda", afferma il questore. "Chi sarà il prossimo?" si chiede la mamma del 15enne aggredito all'ingresso della stazione metro linea 1 di Chiaiano, nella periferia settentrionale del capoluogo.
Gaetano, 15 anni, è stato assalito da un branco di una quindicina di ragazzini. 
Adesso è in ospedale, dove a seguito di un'operazione gli è stata asportata la milza lesionata. Era in compagnia di due cugini e stava andando a Qualiano quando è stato preso di mira da un gruppo di giovanissimi, coetanei.

E dopo il ferimento del figlio 15enne la mamma lancia un appello: "Chi ha visto qualcosa che può servire alla forze dell'ordine ci aiuti e sporga denuncia", ha detto. E ha aggiunto: "Tutto questo deve finire".
Parla di "assurda e immotivata violenza aggressiva di un branco" il questore di Napoli che assicura che si stanno estrapolando immagini e ricostruendo i fatti e si hanno elementi investigativi su cui orientare le indagini.
Il questore chiama in causa il contesto ambientale ma anche l'assenza di collaborazione dei cittadini: "Anche questa volta nessuno ci ha chiamato per raccontarci quanto successo".
Dalla ricostruzione dell'accaduto è emerso che il branco di ragazzi ha preso di mira un gruppetto di adolescenti per futili motivi, composto da una quindicina di persone.
I due cugini della giovane vittima sono riusciti a evitare il peggio, il terzo invece è rimasto in balia degli aggressori che hanno infierito su di lui con pugni e calci, poi lo hanno lasciato a terra ferito. Per fortuna poco dopo ha incontrato il papà di un suo amico che lo ha accompagnato a Melito. A casa, è apparso subito in condizioni tali da richiedere l’intervento dei medici.
Da un “gioco” si è sfiorata la tragedia.
La vita, per queste persone, si basa sulla violenza, vista come un “gioco”, come mezzo per sentirsi “grandi”, “adulti”.
Il primo pensiero?
Le famiglie di ognuno di questi ragazzi che esempio danno, si interessano della vita dei loro figli, della loro crescita, del loro stile di vita?
Non si vuole insinuare che la colpa sia della famiglia, ma da essa nascono le basi per una nuova vita che abbia delle regole che riguardano l’etica e la morale, anche se la società in cui viviamo, purtroppo, non aiuta e non dà stimoli positivi per socializzare, per dare importanza ad una corretta educazione, per diventare “uomini” con buoni principi.
Perché si innescano “micce mentali” basate sul “fare del male” invece di creare rapporti “sani”?
Siamo persone e ci distinguiamo dalle bestie perché abbiamo un
“cervello”, perché non usarlo?
Non è vita questa, se uscendo dobbiamo aver paura di tornare a casa feriti o non tornare più.
“Il cervello: se lo coltivi funziona. Se lo lasci andare e lo metti in pensione si indebolisce. La sua plasticità è formidabile. Per questo bisogna continuare a pensare.” (Rita Levi-Montalcini)
Ilenia Cicatello

https://drive.google.com/file/d/1rDf-CQyqVYn0l8OZgdwGq65drGDieoCl/view?usp=sharing

sabato 13 gennaio 2018

Doppia condanna? [DOWNLOAD DISPENSE APPUNTI RIASSUNTI PDF GRATIS]


Un tribunale di El Salvador ha confermato la condanna a 30 anni di carcere per una 19enne accusata di omicidio aggravato a seguito di un aborto spontaneo, in base alla severissima legge sull'interruzione di gravidanza in vigore nel Paese centroamericano.
"Il tribunale è giunto alla conclusione che la sentenza di condanna va confermata", ha scandito uno dei giudici che ha riesaminato la sentenza emessa a luglio. Il caso di Evelyn Beatriz Herna'ndez Cruz, questo il suo nome, ha avuto rilevanza internazionale perché la giovane aveva subito uno stupro di gruppo da parte di una gang e ha sempre sostenuto di non essersi accorta della gravidanza fino al parto nell'aprile 2016, in cui il feto sarebbe nato già morto. L'accusa, invece, ha affermato che Evelyn avrebbe ucciso il neonato gettandolo nello scarico del bagno e ha citato un esame del medico legale che secondo la difesa sarebbe stato invece equivocato.

Dopo quasi otto ore di dibattimento in aula, i tre giudici si sono pronunciati per la conferma della condanna sostenendo che "gli elementi probatori per la condanna non sono mutati". Alla lettura della sentenza la giovane ha abbassato la testa ed è stata portata via tra i pianti e le proteste dei parenti. El Salvador, è uno dei Paesi con le leggi più restrittive al mondo in tema di diritti delle donne e l'aborto è illegale.
Questa condanna fa riflettere sia sulla rigidità della legge, ma soprattutto sulla legge stessa che in questo caso rispetta un bambino, ma la donna che vorrebbe decidere per la sua vita e per quella di un bambino, avuto da uno stupro di gruppo, come deve sentirsi?
È vero che quel bambino non ha nessuna colpa, ma quella donna fisicamente, psicologicamente, moralmente stuprata avrà anche il diritto di non essere condannata doppiamente nell’animo e nella mente?
Questa donna di soli 19 anni avrà il diritto di vivere una vita, in parte già logorata, nel modo in cui desidera fare?
Il libero arbitrio esiste o no?
C’è una legge che considera illegale l’aborto ed è anche giusto che si tuteli la nascita di una nuova vita, ma in questo caso crediamo sia giusto che la condanna venga affermata? 
Oltre ad una condanna legale, questa condanna è opportuna moralmente ed eticamente?
La ragione ci porta a fare dei ragionamenti che potrebbero essere giusti o sbagliati, la libertà di pensiero ci porta a riflettere su ciò che accade.
Ciò che accade può essere giudicato, non condiviso, non accettato o tutt’altro che così.
In questo frangente la donna accusata, i familiari coinvolti, devono accettare, pur non condividendo, questa decisione dettata dalla legge.
Le leggi, anche le migliori, si possono solo rispettare o temere, ma non amare. (George Christoph Lichtenberg)
Ilenia Cicatello

https://drive.google.com/file/d/1mjr9sCm21SPCQt7UadCa20f9DyJhwS7V/view?usp=sharing

venerdì 12 gennaio 2018

Bullismo online: Ammy "Dolly" Everett [DOWNLOAD DISPENSE APPUNTI RIASSUNTI PDF GRATIS]


Aveva prestato il volto, alcuni anni fa, ad una campagna pubblicitaria di un’azienda produttrice di cappelli.
In Australia Ammy, 14 anni, si toglie la vita.
La ragazzina offesa, decide di liberarsi da tutto ciò suicidandosi.
Il padre invita chi ha vessato la figlia fino a spingerla a questo gesto ad andare ai funerali.
“Così vi renderete conto di quale disastro abbiate fatto. Non avete la metà della forza che aveva il mio prezioso angelo e che ha dimostrato anche nel mettere in atto il suo tragico piano per sfuggire alla cattiveria di questo mondo”.

Il padre, disperato, scrive questo post su Facebook, aggiungendo una richiesta, quella di mobilitarsi contro il bullismo “perché solo così la vita di Dolly non sarà andata sprecata”.
Ennesima notizia che sconvolge e scatena la rabbia, il risentimento, la disperazione dei familiari e della gente per le vittime coinvolte.
La paura incombe, perché è un fenomeno che non si arresta, è un fenomeno che sta aprendo i propri orizzonti che prendono spazio maggiormente soprattutto attraverso i social, attraverso questa realtà virtuale che ormai ci governa.
Siamo obbligati a vivere in questo mondo, ormai cambiato, sempre in fase di sviluppo, nel quale la nostra vita è esposta, è resa pubblica giornalmente e noi non facciamo nulla per dare una svolta, piuttosto siamo, ormai, schiavi di tutto questo.
Siamo i primi a mettere online tutto ciò che ci accade, avvenimenti importanti o meno, chiediamo consigli, pareri, ma solo su argomenti futili.
Dovremmo usare questa realtà per poter cambiare le cose, per poter affrontare problemi di grave entità, per chiedere pareri ma su questioni, su avversità, su punti fondamentali e cruciali che appartengono a questa vita e a questo mondo che sembra non avere più regole.
Se sentiamo fortemente la paura, la rabbia per ciò che ascoltiamo e vediamo, dobbiamo avere il coraggio di chiedere aiuto, di dare aiuto, di urlare con ferocia, per avere giustizia per noi stessi e per tutte le vittime di fenomeni e di eventi che accadono all’ordine del giorno.
L’informazione e la conoscenza sono i primi mezzi dai quali partire.
Sfruttiamo questi ultimi per poter lottare ed evitare tutto questo.
“Stranamente, non abbiamo mai avuto più informazioni di adesso, ma continuiamo a non sapere che cosa succede”. (Papa Francesco)
 Ilenia Cicatello


https://drive.google.com/file/d/13_ASN0DYqt2grEBFlt-mLcDZcHoXz_aR/view?usp=sharing

Il bastardo, il peggior amico del cane [DOWNLOAD DISPENSE APPUNTI RIASSUNTI PDF GRATIS]


L'uomo è una brutta bestia. Mi scuso con la bestia. Gli animali uccidono per fame, per paura, per difesa. L'uomo sa fare molto di più. Sa uccidere per noia, per divertimento, per disprezzo, per codardia, per ignoranza. L'uomo è un animale dotato di intelligenza, dicono. Però non la dimostra quasi mai. Nel lungomare di Cefalù, il 4 gennaio ha portato in scena lo scempio. Un cane imbavagliato e affogato, portato sulla battigia da un ragazzo, che dopo averlo visto galleggiare, l'ha agganciato e portato a riva. Il muso dell'animale stretto nella morsa di una catena, bloccata da un moschettone. Una morte atroce. Non uno sparo, ma qualcosa di sofferto. Annegato.

Mentre scrivo mi rammarico di non riuscire a comprendere la differenza tra la parola animale e l'animale stesso. Che significa “animale”? Qual è che merita questo titolo? Il cane? La persona che ha compiuto questo gesto?. É una persona chi ha compiuto questo gesto? Potrei andare avanti per ore. Resta l'immagine del cane sulla battigia, la catena, la sofferenza. Resta l'idea che non c'è rimasto più molto su cui discutere senza cadere nella rabbia. Il mondo è questo. Signore e signori accomodatevi. Va in onda l'essere umano e la sua fine. Non mi chiedo perché sia accaduto, qualsiasi risposta sarebbe inutile. A dire la verità, ora ricordo perché un giorno ho smesso di guardare la Tv con i suoi notiziari e telegiornali. Lasciamo stare le storie sul fatto che il cane è il miglior amico dell'uomo. Se fosse vero, sarebbe stupido. Invece il cane non è stupido, semplicemente si fida. Si fida a prescindere da chi sei, poi piano piano, resta a vedere se la sua fiducia è stata ben riposta. A volte resta accanto all'uomo tutta la vita, dedicandogli la sua. A volte, ha il tempo materiale di accorgersi che qualcosa non va, non che ha sbagliato, ma che la sua fiducia, per un motivo o per un altro, è stata mal riposta. A volte questo tempo non ce l'ha. Semplicemente si fida. Tanto, troppo. Tutti vogliono un cane per questo. Perché il cane ti ama da subito solo per il fatto di essere stato scelto. L'uomo ha bisogno di conferme. Il cane no. L'uomo ha bisogno di odiare, di distruggere, di possedere, di cancellare. Il cane vuole solo essere accolto. Accolto, non gettato. Ucciso.
Ora è caccia al killer. Si, perché chi ha compiuto questo gesto è un delinquente. Lo stanno cercando. Il cane non aveva microchip, ma queste cose, per chi le compie, non portano mai bene. La vita ti restituisce tutto. E se non è la legge a farti pagare, è la vita stessa che ti chiede il prezzo delle tue azioni. Le foto del cane stanno facendo il giro del Web. A Cefalù non si parla d'altro. Le ore corrono, il tempo stringe, ma qualcosa dovrà succedere.
Il cane è il miglior amico dell'uomo, quello vero. Quello di razza pura. L'animale. Poi, l'uomo. L'unico per il quale il termine “bastardo” determina davvero l'unica razza dalla quale stare lontana.
Franco Quadalti

https://drive.google.com/file/d/1G1F2bmpFr4o8LJxfvxSM4O9oLYK2BGhS/view?usp=sharing

Marina, fino alla fine [DOWNLOAD DISPENSE APPUNTI RIASSUNTI PDF GRATIS]


Era nata il 21 ottobre 1941.
Di una donna non si dice mai l’età, ma lei non aveva paura di nulla. È  morta Marina Ripa di Meana, al secolo Marina Elide Punturieri. Aveva 76 anni. Da oltre 16 anni combatteva contro il cancro. La donna che è stata non verrà raccontata qui. La donna che è diventata neppure. Solo i suoi ultimi pensieri. Si è spenta nella sua casa a Roma, nell’abbraccio dei suoi cari. Una donna che ha sempre vissuto davvero, senza filtri, senza maschere. Personaggio televisivo, scrittrice, stilista. Guidata dalla sua ironia e dalla sua genuinità, irrompeva nelle case degli italiani. Un suo desiderio, tornare alla Terra senza soffrire. Sempre forte e mai arrendevole nei confronti del suo mostro, dopo Natale aveva dovuto mollare perché il corpo ormai la stava abbandonando. "Tutto ormai mi è difficile, mi procura dolore insopportabile”, uno dei suoi ultimi messaggi alla sua gente. Tornare alla Terra senza soffrire, il suo pensiero. Allora il suo messaggio. In un video testamento diffuso dal Tg5 e registrato qualche giorno fa in casa sua, affermava. "Ho qui un messaggio per tutti gli italiani.

L'ho scritto ma purtroppo non sono in grado di leggerlo perché parlare non mi è più possibile. Per questo incarico la mia amica Maria Antonietta Farina Coscioni Dopo Natale le mie condizioni di salute sono precipitate. Il respiro, la parola, il mangiare, alzarmi: tutto, ormai, mi è difficile, mi procura dolore insopportabile: il tumore ormai si è impossessato del mio corpo. Ma non della mia mente, della mia coscienza. Ho chiamato Maria Antonietta Farina Coscioni, persona di cui mi fido e stimo per la sua storia personale, per comunicarle che il momento della fine è davvero giunto. Le ho chiesto di parlarle, lei è venuta. Le ho manifestato l'idea del suicidio assistito in Svizzera. Lei mi ha detto che potevo percorrere la via italiana delle cure palliative con la sedazione profonda. Io che ho viaggiato con la mente e con il corpo per tutta la mia vita, non sapevo, non conoscevo questa via". Si può, ora si può scegliere di addormentarsi senza più dolore, nell’attesa della fine, senza soffrire come nelle sue volontà, senza scappare dal suo Paese, senza dover fuggire in Svizzera, la terra che ha accolto tanti che avevano detto basta prima che la morte li andasse a prendere di sua volontà. La volontà di scegliere quindi. Poter scegliere, almeno in ultimo, come andare via, perché a volte tutta l’esistenza ti vieta ciò che vorresti. Allora, almeno alla fine, la giusta scelta, la propria. Non è un fuggire. È un “adesso mi fermo qui, scendo, andate senza di me”. Scegliere, per sé stessi, pagando da soli il prezzo di quella scelta, perché dove finisce l’amore, inizia sempre l’egoismo, quello degli altri che vorrebbero vederti sempre combattere, fino alla fine delle forze, perché tanto la fatica è la tua. Come la gloria, come la fama. No. Giusto così. Non un addio, ma un “ciao” detto con il cuore di chi non ce la fa più e sceglie di addormentarsi alla fine del viaggio, nel luogo che ritiene più sicuro, quello accanto ai compagni di viaggio.
Franco Quadalti

https://drive.google.com/file/d/1ZamwyjmqB42-3rnVKY95C905Ly_8o1N7/view?usp=sharing

Rupi Kaur [DOWNLOAD DISPENSE APPUNTI RIASSUNTI PDF GRATIS]


Un paio di giorni fa, su un canale satellitare ho visto un programma per in cui veniva mostrata la vita, le opere di Raffaello. Al di là della narrazione della sua vita, ricordo che mi colpì la grandiosità dei suoi dipinti. Non che io sia un intenditore, però voglio dire, non serve un genio per rimanere a bocca aperta di fronte a opere così. Ricordo anche di aver sussurrato una domanda a me stesso mentre guardavo quel programma.
“Oggi, dove sono quegli artisti? Chi sono? Ne esistono?”

Parliamoci chiaro, non solo la tecnologia che in ultimo ha dato un colpo di grazia alla, scusate il gioco di parole, grazia. Tutti assenti, non pervenuti a nulla. Non c’è una città, un luogo, dove viva l’arte. Dove si possano incontrare per strada quelli che un tempo erano i vari Raffaello. I social hanno ribaltato completamente il concetto di rapporto personale. Hanno accorciato a tal punto le distanze tra le persone che le stesse hanno piano piano scelto di non muoversi più. Sia in senso fisico che in senso artistico. Tutti immobili a guardare gli altri o ancora peggio, tutti immobili a mostrare quello che sanno fare. Spesso nulla. Una immensa è incolmabile vetrina de niente. Capita in questo buio di scorgere una luce. Di rado, ma capita. Rupi Kaur, 24 anni, indiana. È nata a Punjab, ma a quattro anni si è trasferita in Canada con la famiglia, e oggi vive a Brampton, in Ontario. Dalla madre ha colto il disegno, da se stessa le parole. Li chiamano Instapoets. Poeti. Questo sono. E che il mondo ormai digitalizzato debba trovargli un nome così poco elegante, ormai poco importa. Rupy scrive, scrive poesie, in carattere minuscolo, senza punteggiatura perché nel suo Paese è così che ha imparato. Tutte le parole hanno l stessa importanza, nessuna punteggiatura a dividere, nessuna maiuscola a prevaricare. Scrive di drammi, di violenze, di alcolismo, di dipendenze, di rotture sentimentali. Lo fa in maniera semplice. Chiara e diretta. Ti viene voglia di iniziare a cambiare la tua vita. Righe scritte, tese come funi o corde di violino. Ci puoi inciampare per caso, saltarle, farci musica per te o per gli altri. Scelte. Intanto lei scrive poesie vere. In Italia aveva fatto parlare di se con una foto postata su Instagram divenuta virale. Lei, sdraiata su un fianco, sul suo letto, visibilmente macchiata dal ciclo mestruale. Cancellata la foto dal social, Rupi aveva intrapreso una battaglia per la sua libertà di pubblicazione, in seguito vinta con tanto di scuse. Anche questa è poesia. Quando vincono i
“deboli”. Rupi e le sue poesie. Rupi, classificata Instapoet. Una parola forse troppo semplice e moderna per poter raccontare la sua vita, i suoi pensieri, il suo cuore. Una parola moderna, per una ragazza che poi tanto moderna non è. Ecco forse la risposta alla mia domanda iniziale. Dove sono finiti gli artisti? Scriveva Jorge Luis Borges...
Un uomo che coltiva il suo giardino, come voleva Voltaire.
Chi è contento che sulla terra esista la musica.
Chi scopre con piacere una etimologia.
Due impiegati che in un caffè del Sud giocano in silenzio agli scacchi.
Il ceramista che intuisce un colore e una forma.
Il tipografo che compone bene questa pagina che forse non gli piace.
Una donna e un uomo che leggono le terzine finali di un certo canto.
Chi accarezza un animale addormentato.
Chi giustifica o vuole giustificare un male che gli hanno fatto.
Chi è contento che sulla terra ci sia Stevenson.
Chi preferisce che abbiano ragione gli altri.
Tali persone, che si ignorano, stanno salvando il mondo.
Ecco dove sono, sono qui, tra noi. Mai invisibili anche se tremendamente silenziosi.
Franco Quadalti

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mercoledì 3 gennaio 2018

La responsabilità dell'insegnante [DOWNLOAD DISPENSE APPUNTI RIASSUNTI GRATIS DI GIURISPRUDENZA]


Ai fini di una più chiara ricostruzione della struttura dell’illecito aquiliano, appare utile chiarire quale sia stata l’evoluzione giurisprudenziale in merito alle diverse letture del principio di colpa.
Per potersi avere l’applicazione dell’art. 2043 c.c. , infatti, è necessario che ricorrano come elementi costitutivi :
1) L’esistenza di un fatto
2) Imputabile dal punto di vista soggettivo, a titolo di dolo o colpa
3) In base al nesso di causalità.
Sulla base di quanto sopra esposto, negli anni, nel nostro ordinamento è stato più volte dibattuto il problema teorico più impegnativo che riguarda la responsabilità civile negli ordinamenti dell’area occidentale a civiltà industriale evoluta.
In un sistema di tipicità variabile qual è quello articolato nel codice civile italiano, infatti, la rilevanza di nuove situazioni soggettive la cui lesione induce l’applicazione della sanzione risarcitoria è uno dei modi in cui si descrive l’evoluzione sociale , è proprio lo sviluppo della responsabilità oggettiva, che ridisegna la responsabilità civile nei suoi profili strutturali.


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La responsabilità dell'insegnante

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Tesina Gian Domenico Romagnosi [DOWNLOAD TESI DI LAUREA DI GIURISPRUDENZA GRATIS]


Gian Domenico Romagnosi Giurista e filosofo(Salsomaggiore 1761 - Milano 1835). Di formazione illuministica, R. fu un fautore dell'unità italiana, idea che gli costò varie traversie (tra cui, a partire dal 1821, il divieto di insegnare). Come giurista è considerato uno dei fondatori del diritto penale moderno (Genesi del diritto penale, 1791). Come filosofo fu un convinto assertore della 'filosofia civile', ossia di una riflessione che studia l'uomo nella sua concreta evoluzione storico-sociale, unendo la dimensione morale a quella giuridico-politica ed economica. A tale impostazione si rifece il suo allievo C. Cattaneo.
VITA.Notaio a Piacenza (1787-89), giusdicente (o pretore) a Trento (1791-93), avvocato nella stessa città (1794-1802); nel 1799, dopo l'occupazione francese e il ritorno della dominazione austriaca, subì 15 mesi di detenzione sotto l'accusa di abuso nell'esercizio delle sue funzioni di pretore.


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Tesina Gian Domenico Romagnosi

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Il marketing [DOWNLOAD DISPENSE APPUNTI RIASSUNTI GRATIS DI ECONOMIA]


Per molto tempo gli esperti di marketing si sono concentrati sugli acquisti dei consumatori, cioe sull’attività che più direttamente è collegata al successo o all’insuccesso di mercato delle impresa, ovvero, se il consumatore compra, l’azienda ne guadagna e così scongiura il rischio di fallimento.
Col passare del tempo, e con il contributo di chi studia i consumatori senza schierarsi sul versante imprenditoriale, ma con l’obiettivo di comprendere, piuttosto che di convincere, si e cominciato a capire che l’acquisto costituisce un elemento di un processo piu complesso all’interno del quale il possesso e l’utilizzo dei beni di consumo sono largamente piu importanti. Possedere, usare, mostrare i nostri oggetti agli altri sono aspetti essenziali delle motivazioni alla base degli acquisti. A maggior ragione il non avere e il non poter mostrare alcunche costituiscono aspetti addirittura, ma non paradossalmente, piu importanti dei precedenti e che ancor meno hanno a che fare con l’acquisto in se e per se.1
Va da sé quindi che il possesso e l’ostentazione dei nostri beni costituiscono elementi sostanziali della nostra identità e costituiscono percio un vettore importante per la comunicazione interpersonale nella società.


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Il marketing 


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I bimbi dimenticati [DOWNLOAD DISPENSE APPUNTI RIASSUNTI PDF GRATIS]


Da bambino ho fatto di tutto, anche di peggio. Bere da una pozzanghera così, per scherzo, come se fossi un cane. Come se fossi un animale stanco oppure semplicemente di passaggio. Ricordo di averlo fatto. Abitavo in una via privata con la strada ghiaiata. Abbastanza dissestata a dire il vero e quando passavano furgoni o camioncini, la situazione peggiorava. Durante gli acquazzoni estivi le buche profonde si riempivano di pioggia, di polvere. Eravamo bambini quando giocavamo alla guerra e correndo passavano apposta dentro a queste pozzanghere che ci sembravano fossati da saltare.

Sporchi e felici. E ricordo in un pomeriggio in cui ero un americano al fronte, fermarmi davanti a una pozzanghera con il mio fucile. Inginocchiarmi e bere. Ero un soldato e non avevo paura. I miei cugini e i miei amici erano soldati come me, e ridevano, e urlavano, e incitavano. Era solo un gioco. Uno stupido gioco di guerra e fame. Guardo da adulto quella foto e mi chiedo se è semplice ipocrisia dire che si parla di Argentina. Quella non è la pozzanghera in un marciapiede. È la tomba della civiltà moderna. Quella non è una bambina Argentina che ha sete. Siamo tutti. In ginocchio a chiedere l’elemosina. A chiedere perdono. Non importa se dopo quella foto sono arrivati gli aiuti e quella bambina come pure gli altri bambini della comunità sono stati sfamati e dissetati. Quella bambina esiste. E con lei quel gesto. Per un attimo ho pure creduto che fosse stata felice di trovare dell’acqua. Invece magari ha paura. Ha freddo dentro. La colpa è di tutti. Non è Argentina. È il mondo intero. Una foto rubata, in mezzo agli alberi. Non ci si doveva far sentire. Voglio pensare che oltre al fatto di immortalare un pezzo di mondo, ci fosse anche il silenzio dovuto al rispetto. Non immagino parole da dire o pensieri troppo articolati da fare. Una bambina trova dell’acqua, beve. E non le importa dove si trova. Non è un gioco. Non sta giocando ai soldati. Sta sopravvivendo al caldo. Non sono certo le alte temperature le nostre colpe. Sono la fame, la sete, le malattie. Sono l’abbandono totale del debole. Sono il menefreghismo, lo spreco, il fanatismo. Ormai siamo marchiati a fuoco, come gli animali da macello. Ma la differenza è che noi non siamo animali, siamo peggio. La peggiore razza. Se un cane si ferma a una pozzanghera a bere ci fa sorridere. Se è una bambina a farlo, deve fare orrore. Un albero con le sue radici scoperte sembra seguire le orme della bambina. Lancia le sue radici sotto e sopra la terra, diramandosi, cercando ogni goccia possibile. Esiste il mondo degli adulti. Quelli che decidono, quelli che comandano, anche quelli che ubbidiscono. Quelli che spendono e quello che rubano, uccidono. Quelli che inventano. Quelli che sperano e quelli che pregano. Esiste il mondo dei bambini. C’è il mondo dei bambini felici, poi ci sono quelli sorridenti. Quelli istruiti, quelli sani e quelli ammalati. C’è il mondo dei bambini dimenticati. Quelli silenziosi, che si inginocchiano come gli adulti ma non pregano. Cercano di sopravvivere, come possono, mentre il resto del mondo va avanti.
Franco Quadalti

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