sabato 5 agosto 2017

Omofobia - abbiamo più paura degli altri o di noi stessi? [DOWNLOAD DISPENSE GRATIS]






Ricordo di essere entrato in un negozio con l’intenzione di acquistare un maglioncino. Ricordo le scale per accedere al piano del reparto maschile. Incrocio con gli occhi un ragazzo sulla trentina, occhiali a specchio con montatura cromata, capello curato, barba appena abbozzata. Si gira verso di me e si alza gli occhiali sopra la testa. Sembra sorridere, ma non ricambio. Giro per il negozio, non trovo nulla per me e quando mi giro per uscire, lo vedo ancora. Mi sorride di nuovo, mi viene incontro. In una frazione di secondo cerco di ricordare se lo conosco, ma niente. Mi tocca il foulard che porto al collo e sorridendo ancora mi dice…”ti sta benissimo”.
Poi esce.
Il mio amico, con me nel negozio, a quel punto esplode in una risata…”un finocchio!!”, sentenzia.
Perché quella parola così dura? Completamente in dissonanza con quel ragazzo. Usciamo dal negozio, ancora in bilico tra la normalità di un complimento e la violenza di un insulto, e un uomo di colore tende una mano verso di me. Mi parla ma non lo ascolto. Poi mi fermo. Non mi serve capire cosa dice, la sua mano parla da sola. Chiede aiuto. Una moneta, fossero due anche meglio. Non ho spiccioli, quasi mi scuso e proseguo. Negli occhi neri di quell’uomo, lo stesso sorriso del ragazzo del negozio. “Dovrebbero smetterla di permettere a questi negri di stare davanti ai negozi a rompere per l’elemosina”. Ancora un insulto, ancora parole come pietre a descrivere un gesto e uno sguardo semplice. Un finocchio, un negro, persone.
Mancava il terrone, quello del Sud, quello che quando parla non sai da dove viene, ma sai che se l’Italia è a forma di stivale, lo puoi facilmente schedare tra il tacco e la punta.
Persone.
Chissà come chiamano noi allora quando ci incontrano…dico al mio amico.
Come vuoi che ci chiamino scusa, non abbiamo nulla che non va…risponde lui.
Ho sentito abbastanza, cambio discorso, parlo del caldo, del sole, delle ferie e tutto torna normale.
Cos’è davvero normale? Chi è normale? Che significa guardare una persona e dovergli spillare addosso un’etichetta?
E se è giusto questo, chi sono io. Chi sei tu?
Credo anche io di aver passato una fase della vita in cui tutti quelli che non la pensavano come me, sbagliavano. Non è mai accaduto però, che un orientamento sessuale, il colore della pelle, o la provenienza diversa dalla mia, mi avessero mai davvero fatto pensare a un handicap. Mi aveva toccato il foulard quel “finocchio”, ma io non ero cambiato. Mi aveva guardato negli occhi quel negro, e io ero rimasto lo stesso. Avrei potuto non capire una parola di quel terrone al semaforo, ma non sarebbe stato un problema. Né mio, ne suo.
C’è chi stringe la mano di un uomo di colore poi se la guarda, come se dovesse cambiare colore da un momento all’altro. C’è chi saluta un omosessuale poi si guarda intorno, sperando di non incrociare gli occhi della gente. C’è chi ride di un dialetto non suo. C’è chi sbaglia. In tanti. Un peccato non vedere degli uomini

e delle donne invece che la paura. Paura del giudizio degli altri forse, se per te quel mendicante non è un negro, hai un problema. Se per te quel barista non è un finocchio, probabilmente sei come lui. Se per te quel ragazzo che vende i calzini in piazza non è un terrone, allora davvero, sparati.
Tutto in una parola, discriminazione.
A Milano hanno sfilato i gay, rivendicando il loro diritto di libertà. Come risposta, a Reggio Emilia hanno sfilato 350 sacerdoti da tutta Italia in quella che è stata definita la processione «riparatrice» contro il Gay pride. Preghiere in latino per salvare il significato di famiglia.

A questo punto resta un dubbio. Cosa costituisce una famiglia?
Sembra che l’amore non sia più uno degli elementi fondamentali, come il rispetto, la tolleranza.
Cosa ci fa sentire così diversi dagli altri? O meglio, cosa ci fa sentire migliori?
Il colore della pelle, l’orientamento sessuale, la provenienza. Gli anni ’40 non sono poi così lontani come pensavamo.

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