martedì 31 ottobre 2017

Botte, botte senza fine [DOWNLOAD DISPENSE APPUNTI RIASSUNTI GRATIS]


Botte, madre e due figli. Arrestato il padre e lo zio.
Non ricordo in 42 anni un solo schiaffo di mio padre a mia madre. Non ricordo un gesto di disprezzo. Però queste cose succedono, e quando è a casa degli altri sembra assurdo. Sembrano così lontane queste cose, quando in casa non le hai vissute. Sembrano storie raccontate per far paura. Invece no. Queste cose succedono. Una tra le migliaia, ieri al nel rione Sanità di Napoli. Una famiglia come tante. La notizia dell’Ansa di ieri parla di una famiglia cingalese, ma poco importa. Non è il colore o la razza, queste cose accadono da Bolzano a Palermo indistintamente. Botte. Botte a due bambini di 7 e 8 anni, botte alla madre.

Botte taciute per anni. Queste notizie sanno nascondersi tra le stanze delle case come fantasmi. Sanno restare lì per sempre a volte. Non è successo a questa famiglia. Il fratello maggiore, prende il telefono e chiama il 112. Denuncia il fatto. E come spesso accade, non c’è mai fine al peggio. Il fratello del padre, si accanisce sul bambino per aver tradito il silenzio. A leggere certe cose, viene da sorridere a pensare quando da bambini si pensava che il lupo cattivo fosse la figura più pericolosa in cui ci si poteva imbattere nella vita. Invece no. Il dolore spesso assume le sembianze di un adulto, di un uomo, una donna, qualcuno che dovrebbe proteggere. L’arresto chiude forse la questione. L’arresto del padre, dello zio. La detenzione non risolve il dramma. Lo chiude in una bolla. Lo fa respirare, crescere. Lo lascia lì in vista. Queste cose non si dimenticano. Le violenze sui bambini squarci nell’anima. Sono voci che continueranno a farsi sentire. Le lesioni curate al pronto soccorso per la madre e i due figli sono nulla a confronto al sanguinare continuo di questa triste realtà. Le favole non sono poi così orribili. Il buio dei boschi raccontato nei libri, non è mai così nero come il giorno in certe case, in certe famiglie. A questi bambini andrebbe insegnato che prendere una caramella da uno sconosciuto non è poi un pericolo così grande, a volte il dolore te lo provoca qualcuno che conosci. Allora usciamo allo scoperto, non nascondiamoci. Entriamo nel bosco e cerchiamo il lupo cattivo e facciamogli una carezza. In fondo lui ci conosce così bene che non può farci del male. In ogni storia da bambini, lo abbiamo visto e non ci ha mai morso, o schiaffeggiato, picchiato, deriso, ferito.
Franco Quadalti

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Quando la follia dà vita al genio [DOWNLOAD DISPENSE APPUNTI RIASSUNTI GRATIS]


PIU’ BELLA DELLA POESIA: ALDA MERINI
Alda Merini, poetessa milanese, nasce nel capoluogo lombardo il 21 marzo 1931.
Sulla sua data di nascita nel giorno tradizionale dell’inizio della primavera, Merini scrisse una poesia pubblicata nel 1991, Sono nata il ventuno a primavera:
“Sono nata il ventuno a primavera
ma non sapevo che nascere folle,
aprire le zolle
potesse scatenar tempesta.
Così Proserpina lieve
vede piovere sulle erbe,
sui grossi frumenti gentili
e piange sempre la sera.
Forse è la sua preghiera.”

Dopo alternati periodi di salute e malattia, che durano fino al 1979, la Merini torna a scrivere; lo fa con testi intensi e drammatici che raccontano le sue sconvolgenti esperienze al manicomio. I testi sono raccolti in "La Terra Santa", pubblicato da Vanni Scheiwiller nel 1984.
Lei passerà dieci interminabili anni in questo deserto: anni senza fine, poiché in manicomio i giorni sono tutti uguali, fuori dal tempo, in una ripetizione monotona e disumana di gesti ed azioni. Disumana è pure la condizione in cui i degenti sono costretti a vivere: trenta persone, potentemente sedate da psicofarmaci, sono rinchiuse a chiave in una stanza che al massimo potrebbe contenerne quindici.
“Fummo lavati e sepolti,
odoravamo di incenso.
E dopo, quando amavamo,
ci facevano gli elettrochoc
perché, dicevano, un pazzo
non può amare nessuno”
Alda Merini è stata una delle più vigorose voci della poesia contemporanea italiana. Una vita all’insegna della poesia e di quella
“follia” della poesia che le ha permesso di vedere la vita da un’angolatura particolare. 
A chi le chiedeva chi fosse, lei rispondeva: “Alda Merini è una gran bella creatura. Bella dal punto di vista umano.” 
Ma lei si distingueva soprattutto per l’acuta intelligenza, per la profonda sensibilità e per il franco anticonformismo, lei che era una “piccola ape furibonda”.
A chi le chiedeva, poi, della sua “follia”, rispondeva: “Per me guarire è stato un modo di liberarmi del passato. Tutto è accaduto in fretta. Una mattina mi sono svegliata e ho detto: che ci faccio io qui? Così è davvero ricominciata la mia vita. Ho ripreso a scrivere e ho perfino trovato quel successo che non avrei mai pensato di ottenere”.
Scoperta da Giacinto Spagnoletti, Alda Merini esordì appena quindicenne con la raccolta “La presenza di Orfeo” e mentre attirava l’attenzione della critica, incontrava, invece, difficoltà a scuola. Venne addirittura respinta quando tentò di iscriversi al liceo Manzoni, poiché, secondo alcuni insegnanti, “non era stata sufficiente nella prova d’italiano”. “Le più belle poesie/si scrivono sopra le pietre/coi ginocchi piagati/e le menti aguzzate dal mistero./Le più belle poesie si scrivono/davanti a un altare vuoto,/accerchiati da agenti/della divina follia.” 
Da quel momento Alda è sempre vissuta al margine, tra il riconoscimento della sua grande capacità poetica e la sua malattia mentale, che nel 1947 la portò al ricovero in clinica, definendo così la sua sofferenza come “ombre della mente”. Con le quali, nel tempo, ha saputo convivere e con il dolore
che l’ha aiutata a entrare prepotentemente nell’animo umano. “Mi sento una donna che desidera ancora- raccontava con quella voce lenta e roca dal letto della sua camera, tra mozziconi di sigarette e pareti trasformate in rubrica telefonica – Oggi per esempio vorrei che qualcuno mi andasse a comprare le sigarette. Non ho mai smesso di fumare, né di sperare”.
Ma Alda Merini era soprattutto poeta. “I poeti lavorano di notte/quando il tempo non urge su di loro/ quando tace il rumore della folla/e termina il linciaggio delle ore./I poeti lavorano nel buio/come falchi notturni od usignoli/dal dolcissimo canto/e temono di offendere Iddio./Ma i poeti, nel loro silenzio/fanno ben più rumore/di una dorata cupola di stelle.” Quella “follia”, forse, si è identificata con la “passione d’amore”. A sedici anni s’innamora prima di Salvatore Quasimodo e poi di Giorgio Manganelli che è sposato e ha una figlia; a ventitré sposa Ettore Carniti da cui avrà quattro figlie e dopo la sua morte si lega al medico e poeta tarantino Michele Pierri. “Io sono folle, folle, folle d’amore per te/io gemo di tenerezza perché sono folle, folle, folle/perché ti ho perduto./Stamani il mattino era così caldo/che a me dettava quasi confusione/ma io ero malata di tormento, ero malata di tua perdizione.” E, forse, anche con la notte. “La cosa più superba è la notte/quando cadono gli ultimi spaventi/e l’anima si getta all’avventura.”
Per Aldo Nove “in Alda Merini la poesia insegue il mito, che insegue la poesia. Entrambi rimangono, crescono con il tempo”. 
Tuttavia la parola poetica della Merini non è né oscura né ermetica, ma lineare e pura. Pura come la sua vita. Come la solitudine, la passione, il dolore, l’amore, la preghiera. Perché “più bella della poesia è stata la mia vita.”
Alda Merini muore a Milano il giorno 1 novembre 2009 nel reparto di oncologia dell'ospedale San Paolo a causa di un tumore osseo.
“Di fatto, non esiste pazzia senza giustificazione e ogni gesto che dalla gente comune e sobria viene considerato pazzo coinvolge il mistero di una inaudita sofferenza che non è stata colta dagli uomini.” (Alda Merini)
Ilenia Cicatello


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Gli studenti non conoscono la classe operaia [DOWNLOAD DISPENSE APPUNTI RIASSUNTI GRATIS]


“Siamo studenti, non siamo operai”. Venerdì scorso con questo slogan, gli studenti hanno manifestato il loro dissenso all’alternanza scuola-lavoro prevista dalla legge 107, la cosiddetta “Buona scuola”. Hanno manifestato anche su altri temi a dire il vero, la sicurezza per esempio. Ma il punto non è questo. Hanno manifestato. In diverse città d’Italia, sono scesi per le strade e hanno passeggiato per i centri cittadini con cartelloni, cori e quant’altro per attirare l’attenzione dell’opinione pubblica su un tema a loro molto caro. Si sentono accostati agli operai. Si sentono sfruttati. Hanno l’impressione che il loro studio si concretizzi nel fare fotocopie, portare caffè, girare per uffici a portare la posta e a dire sì signore.
Mio padre era operaio. Lavorava nella stessa azienda dove ora lavoro io. Non ci siamo dati il cambio. Lui si sporcava le mani in officina, io mi spacco la testa in sala progetti in ufficio. Se leggo la parola “operaio” penso a mio padre prima di tutto. Penso a un uomo forte, un grande lavoratore. Se penso alla parola “operaio”, apro la porta che dà sull’officina e ne vedo almeno una decina. Tutti come mio padre. Da quello con più responsabilità a quello meno, certo. Ma basta scambiare qualche parola di lavoro con loro e ti rendi conto che nessuno è uno sprovveduto.

Ricordo “gli studenti” quando uscivo dall’Istituto Tecnico dove mi sono diplomato. Forse gli ultimi che avrebbero trovato lavoro senza dover andare all’Università. Bastava aver studiato, e avere voglia di lavorare, avere voglia di fare. Ricordo che si manifestava perché la ricreazione era troppo corta, il prato non era mai tagliato e non si poteva dare due calci al pallone. Cose sciocche insomma. Ricordo che quando c’era la possibilità di andare a fare uno stage in un’azienda, assieme a degli operai veri, facevamo la fila per essere messi in lista. E per non passare la settimana sul banco a studiare una volta tanto, e per vedere il mondo reale. Operai. Un cartellino da “marcare” e 8 ore di lavoro quando andava bene. Gente comune. Lavoratori. Se vuoi poco istruita potevi trovarne, ma mai persone di poco valore. Gente tosta. Al di sopra di ogni azienda c’era quello che chiamavamo “il padrone”. Uno che non vedevi mai. Lui sì che aveva studiato. Ed era talmente preparato che si fidava della sua gente. Gli operai erano il braccio destro. Gli studenti venerdì hanno voluto fare la voce grossa. Hanno sparato alto. Ma guardando in alto appunto, non si sono preoccupati troppo di dove camminavano e come si dice dalle mie parti, hanno pestato una merda. Lo slogan non è piaciuto nemmeno a Marco Bentivogli, segretario generale della Fim-Cisl che su Twitter ha postato un chiaro “Piccoli snob radical-chic monopolizzano i movimenti degli studenti contro il loro futuro. Chiedano scusa agli operai che a differenza loro sanno quanto paghiamo gli anni di ritardo sull’alternanza studio-lavoro”.
C’è una crepa, ma da quella crepa non entra luce. Purtroppo ne esce uno scontro decisamente di cattivo gusto.Voglio dire, “siamo studenti mica galline!” La legge 107 non impone a nessuno di fare le uova, perché nel caso, lo slogan avrebbe avuto senso. Ma diciamola tutta. Ne ho visti tanti e conosciuti parecchi di studenti che scaldavano gli atenei con il loro calore corporeo pur di non lavorare. Ma io non ho mai sentito nessun operaio manifestare al grido di…”siamo operai mica studenti!!” durante la cassa integrazione. Siamo seri, tra i tanti studenti con il cartello in mano, tra quelli che gridano di non voler portare caffè o fare fotocopie, c’è anche qualcuno che il caffè lo porterà tutta la vita e continuerà a fare le fotocopie per venti anni almeno. E se lo farà, sarà solo merito suo. Mio padre mi disse, “voglio che tu ti diplomi, che studi e che non resti un ignorante come me, poi andrai a fare quello che vuoi senza che nessuno ti debba dire nulla. E io,appena uscito dalla scuola, ho scelto di fare l’operaio.
“Siamo studenti, non siamo operai”. E di questo vi ringrazio.
Franco Quadalti

https://drive.google.com/file/d/0B3gEQ4Y3gvH1bVV4VG1WNXIzT28/view?usp=sharing

lunedì 30 ottobre 2017

Mobile born [DOWNLOAD DISPENSE APPUNTI RIASSUNTI GRATIS]


Oggi tutti gli occhi sono puntati sui “mobile-born”.
Cioè i bambini di adesso, quelli che prima di imparare a camminare già si sanno muovere con agilità su smartphone e tablet. 
In un articolo pubblicato su TechCrunch, Paul Holland, general partner alla Foundation Capital, si interroga su cosa i “mobile-born”, una volta cresciuti, si attendano dalla tecnologia. A cominciare dal lavoro: secondo Holland, il loro approccio al mobile costringerà a ripensare modi e tempi della tradizionale giornata in ufficio, tra nuove interfacce, software e hardware da rimettere a nuovo. 
Sempre se gli uffici come li conosciamo oggi esisteranno ancora: magari tra qualche anno ci saranno solo “nuvole” alle quali collegarsi per lavorare.
La parola-chiave, in ogni caso, è l’interattività. Che si tratti di lavoro o di svago: basta guardare un 12enne alle prese con i compiti – fa notare Holland – per capire che per lui “tv, laptop, smartphone, iPod e tablet si combinano insieme per raccogliere informazioni utili”. A vincere, secondo lui, sarà l’internet delle cose: “I mobile-born si aspettano che tutto possa essere implementato con un software”. 
Per vedere come sarà cambiato il mondo quando i “mobile-born” saranno grandi, però, c’è ancora tempo. 
Per ora, la curiosità dei bambini per tablet e affini rappresenta una nuova sfida soprattutto per le aziende. Che, in modi diversi, puntano sulla nuova generazione che cresce a pane e mobile. 
Intel, per esempio, ha appena acquisito Kno, una startup specializzata nella costruzione di software educativi. Il prodotto di punta della società, fondata nel 2009, sono i libri di testo interattivi da sfogliare tramite mobile. 
L’acquisizione, per Intel, fa parte di un progetto di più ampio respiro: l’affermazione dei propri tablet educativi nelle aule scolastiche. Anchemister Facebook tiene gli occhi puntati sui “mobile-born”: Mark Zuckerberg ha appena investito (insieme ad altri big, da Google all’università di Yale) in Panorama Education.

La startup, nata nel 2012, utilizza i sondaggi online per raccogliere dati che poi vengono elaborati ed utilizzati per migliorare l’ambiente scolastico, cercando di risolvere problemi come il bullismo. Ora la utilizzano circa 400 scuole in tutti gli Usa per un totale di 1 milione di ragazzi, ma il prossimo obiettivo è l’espansione in tutto il mondo.
E c’è anche chi prova a creare versioni a prova di bambino di strumenti già utilizzati dagli adulti: la startup israeliana Twigis, per esempio, ha lanciato un social network e portale di informazione per i bimbi tra i 6 ed i 12 anni.
Non tutti, però, guardano ai “mobile-born” con entusiasmo. Farà bene questa “overdose” di tecnologia a bambini così piccoli? C’è chi resta scettico: come Randi Zuckerberg, la sorella minore del fondatore di Facebook Mark, che ha appena pubblicato un libro sulle avventure di una bambina, Dot, che scopre quanto il mondo può essere divertente solo dopo aver posato l’adorato smartphone.
L’evoluzione delle nuove tecnologie legate al progresso informatico
(internet, pc, tablet, dispositivi elettronici sempre più sofisticati ed interattivi, come smart-tv, smartphone...) utilizzate prevalentemente con uno scopo comunicativo, ha generato un innovativo modo di pensare, di immagazzinare informazioni, di apprendere, di interagire, di reagire al mondo ed alla realtà.
Utilizzando i device interattivi l’intelligenza dei digitalborn segue i dettami di un apprendimento spaziale, multitasking, basato sulle regole dell’ipertesto (cioè di una lettura digitale – digitalreading – che non è più lineare, ma si realizza su una pluralità di testi, documenti e contenuti di vario genere inerenti un determinato argomento, organizzati ed immediatamente fruibili attraverso la selezione di parole chiave – normalmente evidenziate o colorate – che fungono da collegamento, come veri e propri nodi di una rete), costringe ad imparare per esplorazione e attraverso salti cognitivi, e segue processi di serendipità (casualità: neologismo nato per spiegare come questo tipo di fruizione multimediale spesso conduca a felici scoperte o inattesi apprendimenti, normalmente scollegati dal tema iniziale).
La digitalità ci ha condotto ad uno stravolgimento delle modalità comunicative, espressive ed interattive, in funzione della costruzione di nuovi pattern di adattamento cognitivo al mondo digitale. 
Un esempio sono gli sms twitterizzati che quotidianamente inviamo e che attraverso gli emoticons istantaneamente ci consentono di rendere esplicito un personale contenuto emotivo, una gioia, uno stato di stupore o un cambiamento di stato. 
Gli adulti, con le radici immerse nella concretezza della rivoluzione industriale, e le fronde al vento virtuale dell’era informatica, sono spesso i primi a restare confusi dalla variazione delle coordinate in corso, e si mostrano indecisi sul sistema di valori da seguire. 
Frequentemente vengono descritti dai ragazzi come una generazione muta, incapace di parole che risuonino, depressa, triste, che ha rinunciato o non è stata in grado di educare. 
E mentre loro – i giovani – si muovono in questa selva digitale con la rapida naturalezza degli indigeni, noi genitori ed educatori, finiamo per sentirci immigrati in un mondo di cui ci sfuggono regole ed agganci, finendo per chiederci cosa poter dire loro di credibile, come poterci equipaggiare per essere accattivanti e convincenti verso chi ha un’esperienza innata di un mondo così virtualizzato e tecnomediato. 
Gli adulti hanno rinunciato al ruolo pedagogico o tendono a delegarlo.
I giovani sono bersagliati, spesso senza protezione, fin dalla tenera età – e per tutto il periodo in cui si sviluppano le loro competenze linguistiche, scientifiche ed informatiche – da forme di comunicazione multimediale rutilanti e intensive, che fanno leva sulla loro emotività e sul motore di ogni conoscenza: la curiosità. Ma in forma indotta e manipolatoria.
Non lasciamo che la nostra vita dipenda da un mondo del tutto virtuale.
Ilenia Cicatello


https://drive.google.com/file/d/0B3gEQ4Y3gvH1aXgxVzVmM1k4Q3c/view?usp=sharing

Mamme lavoratrici e figli alunni [DOWNLOAD DISPENSE APPUNTI RIASSUNTI GRATIS]


I dati relativi al 2015/2016 parlano chiaro: rendimento migliore in lettura e matematica per i ragazzini che aspettano a casa il ritorno dei genitori dal lavoro. Secondo pedagogisti e presidi il dato non sorprende: a fare la differenza è la qualità del tempo trascorso con i figli, non la quantità.
Buone notizie per tutte le mamme lavoratrici che si dividono con fatica tra la professione e le preoccupazioni per i compiti dei figli. 
I ragazzini di terza media con la madre impegnata al lavoro, anche tutto il giorno, rendono di più dei compagni che hanno la genitrice casalinga. 
Il dato emerge dai test Invalsi 2015/2016 sulle competenze in lettura e matematica, che consentono di discriminare i risultati anche in base alla situazione lavorativa dei genitori. E sorprende anche un po', visto che nell'immaginario collettivo una mamma in pianta stabile a casa dovrebbe rappresentare una garanzia per il rendimento scolastico degli alunni. Soprattutto di quelli un po' fannulloni. 
Invece i numeri dicono l'esatto contrario.
In italiano, il punteggio medio (normalizzato e corretto dall'istituto di via Ippolito Nievo) dei ragazzini di terza media che possono affidare le proprie angosce scolastiche alla mamma casalinga sfiora i 58 punti, contro una media nazionale che si attesta attorno ai 61 punti e i 63,7 dei figli che aspettano il ritorno a casa dei genitori dopo una lunga giornata di lavoro. 
Tra i primi e gli ultimi, la differenza di punteggio è del 10 per cento a favore delle genitrici che lavorano.

Stesso discorso in matematica: 47,5 punti per gli studenti con mamma non lavoratrice per scelta, quasi 51 come media nazionale e 54 punti per i figli delle donne che lavorano.
Con un divario che sfiora il 15 per cento. Un trend confermato anche quando a rimanere a casa è il papà, ma parliamo di 1.850 casi su quasi 524mila.
Come si spiega questa differenza?
Benedetto Vertecchi, decano dei pedagogisti italiani, non si scompone più di tanto. 
"Perché - spiega - le mamme lavoratrici con tutta probabilità sono più soddisfatte di quelle casalinghe e anche se stanche al ritorno dal lavoro giocano con i figli quando sono più piccoli e contribuiscono alla costruzione di quelle interazioni con gli adulti che parecchi studi internazionali considerano alla base di solide competenze linguistiche. 
Un lavoro che non si cancella col tempo e che dà i suoi frutti anche dopo anni. Le lavoratrici in genere hanno - continua Vertecchi - anche un bagaglio linguistico più ampio e questo si riflette sui figli". 
In altre parole, secondo un vecchio principio, a fare la differenza non sarebbe la quantità del tempo trascorso con i figli ma l'intensità delle relazioni.
Di questo risultato non si meraviglia neppure chi giornalmente ha a che fare con gli alunni di quella età. 
"I figli delle mamme lavoratrici - osserva Viviana Ranucci, preside dell'Istituto comprensivo Matteo Ricci nel quartiere Torrino di Roma - sono più autonomi nello studio, sono più abituati a districarsi nelle situazioni della vita quotidiana attraverso il problem-solving e imparano meglio dagli errori". 
Bambini e studenti più autonomi che imparano a cavarsela da soli confrontandosi anche con i coetanei. 
Al contrario "i figli delle mamme casalinghe, a volte, sono eccessivamente accuditi e protetti. Una situazione che alla lunga nuoce".
Tra i riferimenti pedagogici che hanno fatto dell’insegnamento dell’autonomia uno dei propri capisaldi c’è sicuramente Maria Montessori.
Nelle sue scuole fece abbassare le maniglie delle porte, scelse arredi a misura di bambino e collaudò strumenti adatti a piccole mani, oltre a un interessante repertorio di strumenti didattici fondati sul concetto
di correggersi da soli. 
Nei suoi libri ha lasciato consigli e spunti di riflessione che non hanno mai smesso di essere attuali. 
L’esempio della brocca piena d’acqua è significativo. Se un bambino rovescia dell’acqua nel tentativo di versarla da solo da una brocca piena, come reagiamo? Sul momento forse vorremmo riprenderlo con una frase come: “Stai più attento!” oppure “Versala bene!”, ma la Montessori ci chiederebbe: “Voi gli avete insegnato a versarla bene?”
Pensare di poter insegnare l’autonomia ai bambini correggendoli dove sbagliano rischia di creare uno stato emotivo di insicurezza se prima non sono stati istruiti su come fare.
Quando i genitori danno fiducia ai figli e hanno spiegato loro come muoversi la conquista dell’autonomia è una meta molto vicina.
Ilenia Cicatello

https://drive.google.com/file/d/0B3gEQ4Y3gvH1LXBMak5uMXJLUDA/view?usp=sharing

sabato 28 ottobre 2017

Nativi e immigrati digitali [DOWNLOAD DISPENSE APPUNTI RIASSUNTI GRATIS]


Negli Stati Uniti il 42 per cento dei bambini con meno di otto anni ha un tablet tutto suo. 
L'espressione nativi digitali ha indicato la generazione di chi è nato e cresciuto in corrispondenza con la diffusione delle nuove tecnologie informatiche. 
E quindi si tratta, in genere, di persone, soprattutto di giovani, che non hanno avuto alcuna difficoltà a imparare l'uso di queste tecnologie. 
L'espressione nativi digitali viene dalla corrispondente espressione inglese digital native, in cui si sono accostati due elementi: digital che significa relativo ai mezzi informatici; e native che significa nativo, indigeno. 
Esiste anche un'altra espressione che è quella di immigrati digitali e in questo caso indica esattamente il contrario: gli immigrati digitali sono le persone che, quando queste nuove tecnologie si sono diffuse, erano già adulte e quindi persone che hanno avuto maggiore difficoltà, o addirittura non riescono, a impadronirsi della conoscenza e dell'uso di questi nuovi mezzi. 
Le due espressioni, sia nativi digitali che immigrati digitali, si sono diffuse anche nella lingua italiana dopo il 2001 perché nel 2001 era stato pubblicato in lingua inglese, da uno scrittore statunitense che si chiama Marc Prensky, un libro che era intitolato, per l'appunto, Digital Natives, Digital Immigrants.

Sia nativi digitali che immigrati digitali sono due espressioni che dimostrano che la lingua inglese può essere tradotta con traduzioni appropriate che fanno presa nella nostra lingua e che si diffondono immediatamente. 
E sono espressioni ormai registrate, già da qualche anno, nei nostri migliori vocabolari della lingua.
Gli adolescenti che vivono in case e ancor più in camere ad alto contenuto tecnologico, abituati ad usare le nuove tecnologie fin da bambini per giocare, comunicare, teneresi aggiornati, imparare e fare acquisti sono definiti nativi digitali.

Da quando Internet e la possibilità di essere sempre connessi offerta dagli smartphone sono diventati elemento di vita quotidiano di bambini e adolescenti, infatti, hanno modificato radicalmente il modo di concepire le comunicazioni, le interazioni e le relazioni, soprattutto per quella fascia della popolazione, i giovani, che sta crescendo con queste possibilità non come novità ma come condizione di vita.
"Always on": la quasi totalità del campione (89,7%) possiede uno smartphone con acccesso ad internet. 
Ascoltano musica o radio (61%), guardano video (60,2%), fanno ricerche per la scuola o i compiti (58,3%), curiosano nel web (57,3%) fanno acquisti (22%). Questa la fotografia che emerge dall'indagine di Telefono Azzurro e Doxa (2014), realizzata con più di 1500 ragazzi di tutta Italia (48% ragazze, 52% ragazzi) tra gli 11 ed i 18 anni.
Fruitori attivi della rete, dimostrano di conoscerla e di saperla utilizzare con dimestichezza. 
Ciò che è prioritario, però, è il rimanere in contatto: internet nella vita dei ragazzi è soprattutto social media.
L'89,8% utilizza WhatsApp (un applicazione di messaggistica su smartphone) per rimanere connesso con gli amici: più di 1 su 2 manga più di 50 messaggi al giorno.
Il social media più diffuso rimane comunque Facebook, utilizzato
dall'82,3% degli intervistati. Il 73,6% dei ragazzi vi accede direttamente dal cellulare, ed il 22,2% è costantemente connesso.
Stanno sui social però non solo per allargare la propria cerchia amicale (30,8%), per mostrare di averla (35,8%) o sapere cosa fanno gli altri curiosando nelle loro vite (30,1%). 
"Ragazzi social" per essere visti e riconosciuti:perchè desiderano condividere informazioni e immagini (59,2%), esprimere il loro parere
(38,3%), mostrare le parti migliori di sè (37,8%, 42,2% dei ragazzi), i loro interessi (52,2%), dove vanno e cosa fanno (53%).
Ma cosa succederebbe se non potessero connettersi?
Più della metà degli adolescenti avrebbe paura di non venire a sapere le cose (33,8%) o di perdersi le news del mondo (25,4%), virtuale e non reale.
“Se vuoi vivere la vitastupisciti dell’esistenza in se,dedicati all’ascolto, alle relazionicerca di trovar tempoper contemplare e sognare”.(Enzo Bianchi)
 Ilenia Cicatello


https://drive.google.com/file/d/0B3gEQ4Y3gvH1NHRWTXpuTGg0YVE/view?usp=sharing

La legge nel cuore [DOWNLOAD DISPENSE APPUNTI RIASSUNTI GRATIS]


Un uomo di 70 anni in difficoltà economica è stato sorpreso a rubare una confezione di salame da pochi euro in un supermercato ad Albenga (Savona) ma i carabinieri chiamati dai titolari hanno pagato il conto e gli hanno evitato la denuncia. 
I militari hanno quindi fatto una colletta per aiutare l'uomo, in difficoltà dopo il licenziamento da parte della ditta per cui lavorava, il quale ha ringraziato commosso. 
I militari della pattuglia della Stazione di Ceriale giunti rapidamente hanno fermato l'uomo e, ricostruita la vicenda, si sono subito resi conto della situazione: l'uomo, originario di Cuneo e residente a Sanremo, è rimasto senza lavoro, è stato lasciato dalla moglie e i figli non lo cercano più.
Aveva fame e ha rubato il salame.
Una rapida telefonata con il Comandante di Stazione di Ceriale per avere l'autorizzazione e la decisione della pattuglia di pagare il dovuto, evitando all'uomo la denuncia.
Poi la colletta finale.
Con un paradosso, si potrebbe pensare che la bontà, che dicono si aggiri nell' aria di Natale, sia la virtù dei deboli. Oppure di chi, come l'asceta, vive lontano dall' inquietudine del mondo, dal clamore dei propri simili, dalle molte nostre quotidiane e irritanti dipendenze. 
Nella cultura occidentale contemporanea, l'eroe che vince è attivo e intraprendente, costruisce fortune economiche, ha il piglio aggressivo del conquistatore, tende con tutti i mezzi leciti o non a diventare un capo. Siamo disposti a riconoscere l'astuzia machiavellica dei mezzi giustificati dal fine, non la caritas evangelica. Forse possiamo ancora trovare un qualche spazio per la pietas, la pietà per i vinti, purché però un vinto ci sia. E' il ruolo agonistico dell'homo homini lupus; potente, votato al successo, un po' corsaro.

L' uomo buono è allora il buon uomo. Destinato a vestire i panni della pecora, quelli di un rinunciatario qualsiasi, se non di un vile. Il buon uomo è colui sul quale non si può infierire ulteriormente, più che temprato dal dolore, ne è sfiancato. 
Per il buon uomo si sente soltanto una generica commiserazione. Si è fermamente convinti che questo poveretto non sarà mai un antagonista, ma qualcuno che si arrangia e tira via come può. Oppure un fessacchiotto, un ingenuo. Per operare il bene, invece, non basta il lungo tirocinio di una vita intera. 
La bontà è il piacere dell'altro, nasce dall' umiltà di chi conosce molto, soprattutto di sé. L' uomo a cui penso non ha solo bisogno dell'altro, ma lo desidera e questo desiderio diventa una vera e propria struttura della sua vita. 
Attraverso questa immagine si possono forse tradurre l'una nell' altra l'etica giudaico-cristiana e il nostro vivere comune. Perché per esempio, l'ideologia del successo non trasformi i principi delle etiche universalistiche in una parodia da avanspettacolo. La solidarietà, la generosità, l'oblatività di chi dovrebbe essere capace di compiere del bene senza farsi vedere, sono invece trasformate in un varietà domenicale. 
La relazionalità è la struttura fondamentale dell'essere dell'uomo nel mondo. E' questo il solo vero nutrimento irrinunciabile, e anche il solo terreno autentico su cui siamo chiamati a rispondere della qualità del nostro esserci. 
Riuscire a vivere e operare il bene non è un dono naturale, ma una lenta conquista che si raggiunge attraverso la penetrazione profonda di ciò che la vita rappresenta. 
Ecco dunque che i parametri della bontà vengono dettati dal singolo rapporto inteso come dimensione relazionale strutturale e necessaria tra l'agente e se stesso, ma anche e soprattutto tra l'agente e colui che riceve. Quante volte nel tentativo di compiere il bene, abbiamo omesso di considerare l'effettiva necessità dell’altro di riceverlo? La bontà nasce come atto di sincera partecipazione; e come esigenza di autentica comunicazione, dobbiamo pertanto tener conto - ascoltando le nostre ragioni e quelle dell' altro - di ciò che vogliamo esprimere e di come potrebbe essere interpretato il nostro agire: il bravo bambino che non fa mai arrabbiare la mamma si muove su un piano di assoluta accondiscendenza alle ragioni dell' altro, ma la sua è compiacenza, è una disponibilità apparente, possibile solo a prezzo di una inibizione attiva della sua aggressività. 
La bontà non va confusa con il sentimentalismo o con un generico buonismo che ha a che fare soltanto con i sensi di colpa. 
La bontà è un principio attivo motivato dalla conoscenza della necessità e del dolore umano. Non fare agli altri ciò che non vorresti venisse fatto a te, ma forse dovremmo aggiungere non fare a te stesso quello che non faresti agli altri per creare la dimensione di quella giusta misura in cui bontà diventa sinonimo di equilibrio tra ragione e sentimento.
Non è degli ingenui.
Quante volte giudizi affrettati e superficiali hanno confuso la bontà d' animo con l'ingenuità, la debolezza? 
Colui che appare disposto ad agire più per il bene altrui che per il proprio viene immancabilmente deriso e spesso isolato. La collettività sembra insomma non rendersi conto che la vera essenza dell'uomo buono non è la debolezza, bensì una salda e intensa forza interiore. Colui che è buono è dunque una persona dotata di una struttura psichica ricca e vigorosa, sviluppatasi nel tempo attraverso un proficuo investimento di risorse nel rapporto con gli altri. 
La bontà è una dimensione attiva dell'esistenza, tutt'altro che inerte e un po' ottusa.
Ilenia Cicatello


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venerdì 27 ottobre 2017

Decreto Poletti [DOWNLOAD DISPENSE APPUNTI RIASSUNTI GRATIS]


La Corte Costituzionale ha letteralmente salvato le casse dello Stato, che altrimenti, avrebbero dovuto erogare cifre fino a 30 miliardi di euro, dall’impatto enorme per i conti pubblici. Questa, infatti, era la cifra stimata, al netto delle restituzioni già pagate dall’entrata in vigore del decreto del 2015, dal legale dell’Inps, Luigi Caliulo, a margine dell’udienza di ieri alla Corte Costituzionale. Alla luce di tutte le censure di incostituzionalità sollevate da più parti, circa il bonus Poletti sulle perequazioni pensionistiche, i giudici avrebbero dovuto pronunciarsi sui seguenti dubbi di costituzionalità: violazione del principio di uguaglianza per il deteriore trattamento dei percettori di trattamenti pensionistici rispetto alle generalità dei percettori di altra tipologia di reddito, lesione del principio di capacità contributiva, violazione dei principi della proporzionalità e adeguatezza della retribuzione (anche differita), violazione di obblighi internazionali derivanti dalla Cedu (la Corte europea dei diritti dell’uomo). La questione, come noto, riguardava i pensionati che percepivano una prestazione superiore a tre volte il trattamento minimo inps nel 2011 o nel 2012 (circa 1.450 euro lordi ovvero 1.100 euro netti al mese) e, pertanto, non hanno ottenuto la rivalutazione del reddito pensionistico a causa della legge Fornero nel biennio 2012-2013.Per questo 14 tribunali e una sezione della Corte dei conti avevano presentato ricorso alla Consulta per il mancato adeguamento delle pensioni per tutti i beneficiari. Ciò nonostante, secondo la Consulta, il decreto legge 65 del 2015 voluto dal ministro del Lavoro, non vìola i princìpi di proporzionalità e adeguatezza del trattamento previdenziale.

Considerando che il relatore della pronuncia, il giudice Silvana Sciarra, è stato lo stesso della sentenza 70 che nel 2015 aveva bocciato il "Salva Italia" di Elsa Fornero, il governo temeva una nuova batosta. Stavolta, non solo la bocciatura non è arrivata, ma i giudici hanno anche sottolineato come ci sia una netta differenza tra il decreto Fornero e quello Poletti: "La Corte ha ritenuto che – diversamente dalle disposizioni del “Salva Italia” annullate nel 2015 con tale sentenza – la nuova e temporanea disciplina prevista dal decreto-legge n. 65 del 2015 realizzi un bilanciamento non irragionevole tra i diritti dei pensionati e le esigenze della finanza pubblica". Insomma, la Corte ha considerato legittimo il sistema graduale adottato dal governo nel processo di adeguamento delle pensioni all'inflazione."Una pessima notizia - sottolinea Massimiliano Dona, presidente dell'Unione Nazionale Consumatori -. Buona per i conti pubblici, ma molto negativa per i pensionati che faticano ad arrivare alla fine del mese. Il problema è che il rimborso deciso dal Governo era parziale per tutti, anche per chi aveva una pensione pari a 4 volte il minimo. Ecco perché la sentenza di oggi, ritenendo realizzato un bilanciamento non irragionevole tra i diritti dei pensionati e le esigenze della finanza pubblica, ci delude e ci lascia perplessi". "La speranza era che, almeno per i titolari dei trattamenti previdenziali più modesti, pari a 4 volte il trattamento minimo, la Consulta stabilisse l'obbligo di un rimborso e di un adeguamento completo".
Greco Felice Cristian


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Abuso di dipendenza economica [DOWNLOAD DISPENSE APPUNTI RIASSUNTI GRATIS DI ECONOMIA]


Il divieto di abuso di dipendenza economica è sancito dalla legge n.192/1998, che disciplina la subfornitura nelle attività produttive. Il divieto, elaborato in materia di subfornitura, colpisce tutte le condizioni ingiustificatamente gravose cui è sottoposta un'impresa (cliente o fornitrice) che si trova in uno stato di dipendenza economica rispetto ad una impresa committente, la quale ultima impone condizioni eccessivamente squilibrate a proprio vantaggio. E' bene chiarire che con il contratto di subfornitura si suole indicare il fenomeno della cooperazione tra imprese, ossia dell'affidamento ad imprese minori, da parte di imprese più grandi, della predisposizione di talune parti del prodotto finale o dello svolgimento di talune fasi del processo produttivo, con conseguente tendenziale dipendenza del subfornitore dalle direttive impartite dall'impresa committente. A norma dell'art. 9 della suddetta legge infatti, si considera dipendenza economica la situazione in cui un'impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un'altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi. La posizione di dipendenza è valutata tenendo conto anche della reale possibilità per la parte che abbia subito l'abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti. Sul piano sanzionatorio, poi, l'abuso della posizione economica dominante è punito con la nullità dei patti attraverso i quali esso è esercitato.


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Abuso di dipendenza economica

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Sahar morta di fame [DOWNLOAD DISPENSE APPUNTI RIASSUNTI GRATIS]


Si muore di sonno, si muore d’amore, si muore di paura, si muore di questo e di quello. Cazzate.
Si muore di fame. Succede ancora. Succede ogni maledetto giorni da qualche parte nel mondo e a me viene il vomito a pensare a tutto questo. Etto da parte la guerra per un attimo. Un flagello troppo grande da descrivere un qualche riga. Come pure la fame. Mi vengono in mente le sfilate delle miss di turno che intervistate dichiarano “un augurio che sparisca la fame nel mondo”. Mi viene da vomitare.
Sahar, un mese di vita, è morta di fame in Siria. La bambina, nata nella zona di Ghouta sotto assedio, non è riuscita a sopravvivere a causa della grave malnutrizione. La guerra e la fame. Ma è morta di fame. I genitori non avevano i soldi per comprare il latte. Noi buttiamo un buon 25% delle cose che compriamo. Chiacchiere da Bar? Forse. Siamo troppo lontani per dare una mano e forse ci accorgeremmo che più ci avviciniamo lì, e più si diventa come loro. Prima il freddo, poi il caldo, uno sparo, la paura, la guerra, sei già lì.
E muori. A 70 anni come a un mese. Muori di tutto, anche di fame. Non guardo la foto della bambina. Non la voglio guardare e rabbrividisco anche al commento del giovane fotografo che l’ha scattata. “Ero in imbarazzo di fronte a quel corpicino, poi nove ore dopo è morta”.

Non ce la farei. Al diavolo la cronaca. Al diavolo chi ha le colpe. Se le prenda e paghi una volta per tutte. Non c’è più la bambina dentro a quel corpo. Non c’era nemmeno prima. Era altrove a giocare e a ridere di questo mondo malato. Ha lasciato un simbolo per tutti, che con buona probabilità domani sarà già dimenticato. Se non c’è chi soffre non c’è notizia. Ormai da tanto le cose belle non fanno notizia perché sono poche. In Tv e sui giornali siamo bombardati di calcio, di automobilismo. Dal nuovo aeroporto internazionale che ospita cento mila aeroplani al grattacielo talmente alto che se ti butti dall’ultimo piani muori di vecchiaia prima di toccare la pavimentazione fatta rigorosamente di lapislazzuli. Però i bambini muoiono di fame e la verità è che non frega nulla a nessuno. Facce inorridite, poi una battuta…”eh…che mondo!!” poi cappuccino e brioche. Non quella semplice ma quella ripiena delle nostre ipocrisie. L’avete mai vista l’espressione di un bambino dopo che ha mangiato? No? Allora la felicità voi non sapete che volto ha. Avete mai visto una bambina di un mese morta di fame? No? Allora voi siete al sicuro. Dormite sonni tranquilli che la vita è bella. Che se ti tamponano l’auto poi c’è l’assicurazione. Che al cinema danno un film d’azione dove chi muore poi te lo ritrovi sei mesi dopo sul set di un film romantico, dove tradito dalla moglie, l’anno dopo fa il sacerdote nella commedia più vista alla Televisione. Qui, chi muore, lo fa sul serio. Con l’espressione di chi è stato abbandonato. Da tutti.
Non la voglio più guardare quella foto. In quella foto c’è ogni singolo gesto che potevamo fare e non abbiamo fatto. In un suo libro Chuck Palahniuk scriveva che forse all’inferno non si finisce per quello che si fa, ma per quello che potremmo fare e non facciamo. Ogni maledetto gesto d’amore verso il prossimo che teniamo nelle tasche, ci ammala e fa ammalare tutti. Siamo uomini a metà. Destinati a morire. Non qui, non di fame.
Sahar ha vissuto poco qui. Il tempo di vedere che qui, non c’è nulla di buono per i bambini.
E questa è la verità.
Franco Quadalti


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Truffa, erogazioni pubbliche e insolvenza fraudolenta [DOWNLOAD DISPENSE APPUNTI RIASSUNTI GRATIS DI GIURISPRUDENZA]


Chiunque, con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a se' o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, e' punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da 51 € a 1032 €. La pena e' della reclusione da uno a cinque anni e della multa da 309 € a 1549 €: 1) se il fatto e' commesso a danno dello Stato o di un altro ente pubblico o col pretesto di far esonerare taluno dal servizio militare; 2) se il fatto e' commesso ingenerando nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario o l'erroneo convincimento di dovere eseguire un ordine dell'Autorita'. Il delitto e' punibile a querela della persona offesa, salvo che ricorra taluna delle circostanze previste dal capoverso precedente o un'altra circostanza aggravante (1). (1) Comma aggiunto dalla L. 24 novembre 1981, n. 689.
- Il bene giuridico protetto è il patrimonio in quanto offendibile attraverso il ricorso alla frode. - Si tratta di un reato che necessita la cooperazione della vittima,questo lo distingue ad esempio,dal furto aggravato con mezzi fraudolenti. - E’ un reato a forma vincolata: consiste in artifizi e raggiri,che inducono in errore e portano la vittima a disposizioni patrimoniali a proprio danno e ad un ingiusto profitto per il reo. - L’artificio è una manipolazione o trasfigurazione della realtà esterna,provocata mediante la simulazione di circostanze inesistenti o la dissimulazione di circostanze esistenti. - Il raggiro è un’attività simulatrice sostenuta da parole o argomentazioni atte a far scambiare il vero per il falso. I raggiri non necessitano di una proiezione nel mondo reale a differenza degli artifici,possono esaurirsi in meri giochi di parole che inducano la vittima a credere una cosa piuttosto che un’altra.


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Truffa, erogazioni pubbliche e insolvenza fraudolenta 


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Anna Frank... il ricordo [DOWNLOAD DISPENSE APPUNTI RIASSUNTI GRATIS]


Ho sentito qualche giorno fa “Il cielo in una stanza” cantata da una ragazza a X-Factor, il noto talent per cantanti. Mara Maionchi, giudice acclamato della competizione, ha pianto. Non di gioia. Ha pianto perché come dice lei, ci sono canzoni che non vanno toccate. Sono perfette così. Anzi, ha detto quasi di più. Non andrebbero nemmeno cantate da altri. Sono così e basta. Paoli la scrisse, solo lui la può cantare. Come un patrimonio. Come prendere a martellate il David, come pulire la Gioconda con il Vetril, come mettere la Maglia di una squadra di calcio ad Anna Frank. Il paragone calza. Dio non voglia che qualcuno se la prenda con il gigante di Firenze o gli salti in mente di fare pulizia al Louvre. Però ahimè, Anna Frank in vesti calcistiche, si è vista. Uno sfottò. Una idiozia. Mica perché è nata il mio stesso giorno, ma queste cose non si possono fare, non si devono. Non c’è un motivo valido per una cosa così. Uno sfregio. Ho detto “uno sfottò”. Nasce così quell’adesivo che si è visto. Uno sfottò dei tifosi laziali nei confronti di quelli romanisti. Dietro c’è ignoranza. Rabbia. Stupidità. Vado avanti? Non serve.Un odio tra due tifoserie che è degenerato nel malcostume del nostro Paese. Malato ormai. Un gesto che va al di là della facile ironia. Un gesto che nasconde l’odio per un popolo.

Si perché in fondo, anche chi ha riso alla stupida vignetta va accomunato a chi l’ha pensata, prodotta, messa in mostra. Ci dobbiamo allontanare dallo sport purtroppo. Allontanare e anche tanto. Da esempio sta diventando un veicolo di violenza, cattivo gusto, odio. Bisogna lasciarli soli quelli che si spacciano per “tifosi”. Lasciarli soli come solo è stato lasciato chi vanno a colpire con i loro adesivi. In rete siamo sommersi da “meme”. Una foto di un personaggio famoso, magari con un’espressione buffa o particolare, e nella foto un commento o una frase ipotetica detta per far ridere. Insomma, una sorta di didascalia parodica alla foto originale.A volte come in questo caso, non è una frase, ma una maglia indossata, ma di divertente non c’è nulla. Su certe tragedie non si scherza. Non si può minimizzare. Su una ragazza uccisa per colpa della più grande barbarie dell’umanità non si fa ironia. Chi non ha mai preso in mano e aperto anche solo una pagina del Diario di questa ragazzina, non deve parlare. Chi, lo ha fatto, non deve permettersi. Permettersi il lusso di ridere, di fare ironia, di scriverci su una cazzata, di cambiare una foto. Questo è un rutto durante la Turandot, una bestemmia in Chiesa, uno sputo a un Van Gogh, il dito medio alzato di fronte alla dignità di un popolo.È far ridere usando le disgrazie. È sparare su qualcuno che non si può difendere. L’ho fatta tragica? Ne servirebbe di più perché non riesco a rendere l’idea dello scempio. Di fronte a questa foto, torniamo indietro a quel tempo. Diventiamo quei carcerieri, quei carnefici. Ridendo. Non siamo diversi. Siamo anche peggio.E chi permette questo, va punito allo stesso modo di chi il gesto lo compie. Aveva 15 anni. È morta nel campo di concentramento di Bergen-Belsen. Teneva un diario, mai finito. È diventato un libro. È storia.  E la storia non si cambia, non si può fare purtroppo a volte. O bisognerebbe partire da quell’adesivo che rappresenta più di 70 anni spesi a non capire nulla.
Franco Quadalti

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giovedì 26 ottobre 2017

Indignazione: reato prescritto [DOWNLOAD DISPENSE APPUNTI RIASSUNTI GRATIS]


La Corte d'Appello di Venezia non ha confermato una sentenza di condanna a 10 anni di reclusione pronunciata in primo grado dal Tribunale di Treviso a carico di un uomo accusato di aver ripetutamente abusato della figlia minorenne dal 1995 al 1998, a causa dell'intervento di una sentenza a sezioni unite della Corte di Cassazione - la 28.953 dello scorso giugno, innescata da un caso registrato nel napoletano - che ha accorciato i tempi della prescrizione. Ne dà notizia il Corriere del Veneto riportando la cronaca di fatti avvenuti nel trevigiano circa 20 anni fa, quando la vittima degli abusi aveva 8 anni.
L'imputato, accusato delle violenze dalla stessa figlia, una volta diventata maggiorenne, si sarebbe reso responsabile di aver abusato sessualmente di lei e di averla anche "ceduta" ad altri conoscenti per almeno un triennio. 
L'uomo era stato condannato dai giudici di Treviso ma, quattro mesi prima della conferma della condanna attesa nel processo d'appello, il 9 giugno scorso, un pronunciamento della Cassazione, ancora una volta su un caso di violenza sessuale su minorenni avvenuto in provincia di Napoli, aveva annullato l'effetto di allungamento del termine della prescrizione previsto in caso di "aggravanti ad effetto speciale" normalmente collegate a reati di violenza sessuale su minori di 14 anni.
La magistratura lagunare, che aveva fissato l'appello soltanto in questi ultimi giorni di ottobre, non ha potuto fare altro che dichiarare l'imputato non più punibile per effetto della prescrizione: e ciò nonostante sulle responsabilità dell'uomo, che non ha mancato di presenziare in aula certo dell'epilogo a lui favorevole, non ci siano dubbi. La Corte d'appello di Venezia, infatti, applicando l'articolo 588 del codice di procedura penale, ha riconosciuto a suo carico le statuizioni civili, ossia il diritto alla parte civile ad ottenere un equo risarcimento (che ovviamente non avrebbe potuto aver luogo in caso di innocenza dell'imputato), confermando alla vittima, assistita dall'avvocato trevigiano Aloma Piazza, una provvisionale di 100 mila euro che è già stata riscossa.
La prescrizione dei reati è una causa estintiva determinata dal decorso del tempo senza che la commissione del reato sia seguita da una sentenza di condanna inderogabile. 
L'ispirazione dell'istituto, sul quale gli orientamenti della scienza penalistica sono unanimi, va rinvenuta nel fatto che sarebbe inutile, oltre che inopportuno, esercitare la funzione repressiva dopo che sia decorso un certo arco temporale dalla commissione dell'illecito, in forza del venir meno delle esigenze di prevenzione generale.
Tuttavia, nel corso degli anni, la disciplina della prescrizione dei reati ha conosciuto diversi interventi correttivi, confluiti nella legge cd. "ex Cirielli" n. 251/2005.
Per individuare quali termini di prescrizione si applicano ai diversi tipi di reato, in generale occorre fare riferimento alla durata della pena edittale massima prevista per essi dalla legge.
In ogni caso, la prescrizione non può essere inferiore a sei anni per i delitti e a quattro anni per le contravvenzioni.
Se, poi, per il reato la legge stabilisce pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria, si applica il termine di tre anni mentre quando stabilisce congiuntamente o alternativamente la pena detentiva e la pena pecuniaria, si ha riguardo soltanto alla pena detentiva.
Inoltre, a differenza di quanto avveniva in passato, il metodo di calcolo introdotto nel 2005 non tiene conto delle circostanze, salvo il caso in
cui sussistano aggravanti autonome o ad effetto speciale, in presenza delle quali si considera l'aumento massimo di pena previsto.

La regola generale di computo della prescrizione, tuttavia, conosce
delle specifiche eccezioni per i reati di particolare gravità.
Si pensi, ad esempio, all'omicidio stradale (recentemente introdotto nel nostro ordinamento), alla tratta di persone o al sequestro di persona a scopo estorsivo: in tal caso la prescrizione è doppia rispetto a come sarebbe utilizzando i criteri di calcolo generali.
La prescrizione, in ogni caso, non è sempre applicabile.
Per alcuni tipi di reato, infatti, la sua ratio viene meno e il decorso del tempo non produce alcuna conseguenza sulla punibilità.
Ci si riferisce, in particolare, ai reati per i quali è prevista, anche solo come effetto dell'applicazione di circostanze aggravanti, la pena dell'ergastolo.
Per tali reati, infatti, è difficile ipotizzare il venir meno dell'interesse dello Stato alla loro punizione.
L'articolo 157 del codice penale (che è quello che si occupa in generale dell'istituto in commento) stabilisce poi che la prescrizione può essere sempre espressamente rinunciata dall'imputato.
A tal proposito la giurisprudenza ha chiarito che la rinuncia può essere legittimamente esercitata solo quando la prescrizione sia maturata, in quanto è solo da questo momento che è possibile valutare in concreto gli effetti di tale scelta (cfr. Cass. 10 gennaio 2006 n. 527).
Per capire come eseguire il calcolo è necessario fare riferimento a quanto stabilito dall'articolo 158 c.p. il quale distingue tra reato consumato, reato tentato e reato permanente.
Nel primo caso, infatti, il termine di prescrizione decorre dal giorno della consumazione, nel secondo caso dal giorno in cui è cessata l'attività del colpevole e nel terzo caso dal giorno in cui è cessata la permanenza.
La medesima norma prende poi in considerazione l'ipotesi in cui la punibilità del reato dipenda dal verificarsi di una condizione, sancendo che il termine decorre dal giorno in cui tale condizione si è verificata, e quella in cui il reato sia punibile a querela, istanza o richiesta, sancendo che il termine decorre dal giorno del commesso reato.
“Il mio augurio a tutti voi, a ciascuno di voi, è che abbiate un motivo per indignarvi. È fondamentale. Quando qualcosa ci indigna come a me ha indignato il nazismo, allora diventiamo militanti, forti e impegnati. Abbracciamo un’evoluzione storica e il grande corso della storia continua grazie a ciascuno di noi”.(StéphaneHessel) .
Ilenia Cicatello


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mercoledì 25 ottobre 2017

Dipendenza: la morte in diretta [DOWNLOAD DISPENSE APPUNTI RIASSUNTI GRATIS]


Mentre la vittima di un incidente stradale era a terra, lui con il telefonino si è connesso a Facebook e ha iniziato a trasmettere la diretta dell'agonia, commentando: "Chi mi segue chiami aiuto!" e "C'è sangue, speriamo si salvi". E' successo a Riccione (Rimini), dove nella notte tra sabato e domenica è morto in viale Veneto un ragazzo di 24 anni, Simone Ugolini, dopo un schianto in motorino contro un albero. L'autore del video, come riportano quotidiani locali, si chiama Andrea Speziali, ha 29 anni, esperto d'arte e candidato alle ultime elezioni comunali. Sui social è stato bersagliato di critiche e insulti. "Mi hanno detto che avevano già chiamato i soccorsi", ha detto poi - riferisce Il Resto del Carlino - spiegando di essere rimasto "sconvolto, sotto choc" e di aver voluto "far qualcosa per quel giovane a terra". "Mi sono messo a filmarlo e volevo fare una diretta, volevo condividere il mio dolore. Non cercavo lo scoop - ha aggiunto - ora ho capito di aver sbagliato e chiedo scusa a tutti".
La dipendenza da Internet non può essere considerata uno specifico disturbo psichiatrico, ma piuttosto un sintomo psicologico che può connettersi a differenti quadri diagnostici e clinici. Si può parlare di dipendenza quando la maggior parte del tempo e delle energie vengono spesi nell’utilizzo della rete, creando in tal modo menomazioni forti e disfunzionali nelle principali e fondamentali aree esistenziali, come quella personale, relazionale, scolastica, familiare, affettiva.
Lo sviluppo di Internet e la sua penetrazione diffusa ha cambiato profondamente ogni dimensione della nostra vita pubblica e privata. Nel 2014, in Italia è aumentata rispetto all’anno precedente la quota di famiglie che dispongono di un accesso ad Internet da casa e di una connessione a banda larga (rispettivamente dal 60,7% al 64% e dal 59,7% al 62,7%). Le famiglie con almeno un minorenne sono le più attrezzate tecnologicamente: l’87,1% possiede un personal computer, l’89% ha
accesso ad Internet da casa. All’estremo opposto si collocano le famiglie di soli anziani ultrasessantacinquenni: appena il 17,8% di esse possiede il personal computer e soltanto il 16,3% dispone di una connessione per navigare su Internet (ISTAT, 2014).
Il Web 2.0., termine usato per indicare uno stato dell’evoluzione del World Wide Web (Dinucci, 1999, O’Reilly, 2009), ci raggiunge sempre e in ogni luogo attraverso computers, tablets, smart-phones e simili.

In un giorno mediamente sono 23 milioni gli italiani che visitano il social network più popoloso del pianeta –Facebook- (erano 20 milioni nel 2015).
Ma la velocità più impressionante riguarda l’utilizzo in mobilità. Sono 25 milioni coloro che, almeno una volta al mese, lo usano da un tablet o uno smartphone, mentre 21 milioni accedono quotidianamente. In entrambi i casi si tratta di un balzo di ben 4 milioni anno su anno.
Interessante guardare come cambia la composizione demografica da gennaio 2014 ad oggi. Secondo i dati forniti da Facebook Advertising, i giovani (fino a 18 anni) raggiungibili con gli investimenti pubblicitari sarebbero calati di 100.000 unità (-5%). A calare anche le coorti 19-24 e 30-35 del 2%.
In crescita, invece, le altre, i 25-29enni (+3%), i 46-55enni (+6%) e soprattutto gli ultra 55enni (+10,5%). La popolazione più numerosa è ormai da tempo quella dei 35-45enni con 6.300.000 unità.
Internet è l’eccesso e il virtuale per definizione (Cantelmi et al., 2000).
Senza confini, senza limiti: né di spazio (è in ogni luogo, senza essere in alcun luogo), né di tempo (è pronto al consumo quando voglio).
Il telefono cellulare va di pari passo con internet. Splendido strumento, usato per consentire di essere simultaneamente sempre soli e mai soli. Si pensi agli SMS, piccole pillole quotidiane, senza le quali c’è chi non riesce più a stare.
Recenti studi riferiscono di adolescenti che passano notti insonni per controllare ripetutamente se il loro cellulare, obbligatoriamente acceso 24 ore su 24, è latore di qualche messaggio. Esso viene usato anche per lanciare richiami (“Ti faccio uno squillino per farti sapere che penso a te”), ed è un altro modo virtuale e mediato per scaricare nell’immediato tensioni e bisogni che andrebbero elaborati in relazioni dirette, stabili e sicure (Di Gregorio, 2003).
Si fa strada così lo sviluppo della dipendenza e viene coniato il
termine Internet Addiction nel 1995 da Ivan Goldberg che propose dei criteri riformulando quelli della dipendenza da sostanze del DSM-IV: un uso maladattivo di internet, che conduce a menomazione o disagio clinicamente significativi.
Per quanto riguarda la nomofobia, secondo David Greenfield, professore di psichiatria all’Università del Connecticut, l’attaccamento allo smartphone è molto simile a tutte le altre dipendenze in quanto causa delle interferenze nella produzione della dopamina, il neurotrasmettitore che regola il circuito celebrale della ricompensa: in altre parole, incoraggia le persone a svolgere attività che credono gli daranno piacere. Così ogni volta che vediamo apparire una notifica sul cellulare sale il livello di dopamina, perché pensiamo che ci sia in serbo per noi qualche cosa di nuovo e interessante. Il problema però è che non possiamo sapere in anticipo se accadrà davvero qualche cosa di bello, così si ha l’impulso di controllare in continuazione innescando lo stesso meccanismo che si attiva in un giocatore di azzardo (Greenfield D.N. e Davis R.A., 2002).
Nonostante nel nome compaia la sigla “fobia” e che i sintomi siano molto similari a quelli dell’ansia, uno studio condotto da ricercatori del Panic and RespirationLaboratory, dell’Università Federale di Rio de Janeiro (2010) sembra indicare che la Nomofobia sia da considerare una dipendenza patologica piuttosto che un disturbo d’ansia.
I ricercatori avrebbero infatti sperimentato che un approccio terapeutico mirato a ridurre l’ansia non sia efficace nel trattamento della nomofobia, ma che i soggetti affetti da questo tipo di psicopatologia rispondano meglio ad un trattamento specifico per le dipendenze patologiche (King A.L. atall., 2010).
Le persone affette da dipendenza da Internet, in modo analogo ad altre forme di dipendenza, sarebbero caratterizzate da un deficit del sistema dopaminergico a capo dei meccanismi di ricompensa e punizione.
Siamo una società malata? Disintossichiamoci finché siamo in tempo!
Ilenia Cicatello


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Millantato credito e traffico di influenze illecite internazionale [DOWNLOAD DISPENSE APPUNTI RIASSUNTI GRATIS DI ECONOMIA]


Più precisamente, se da un punto di vista strettamente lessicale non sembrava potersi dubitare che «il termine millantare esprimesse l’idea dell’inganno o dell’imbroglio», non sono mancate – come ormai è discutibile prassi – concezioni notevolmente più late ( rectius analogiche) del millantato credito consideranti del tutto ininfluenti, ai fini dell’integrazione della fattispecie, «la circostanza che la vanteria fosse o meno fondata, ritenendo configurabile il reato anche qualora le relazioni millantate esistessero effettivamente e fosse provata la loro efficacia presso il pubblico ufficiale». Così come, per altro verso, vi è contezza che la prioritaria esigenza di adeguamento della normativa penalistica italiana agli standard internazionali in materia di lotta alla corruzione non poteva essere ulteriormente elusa; tenendo conto, soprattutto, delle emergenze di politica criminale risultanti da una evidente insufficienza di sistema, anche alla luce di un’analisi di tipo comparatistica.
 


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Millantato credito e traffico di influenze illecite internazionale
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Le frodi Europee [DOWNLOAD DISPENSE APPUNTI RIASSUNTI GRATIS DI ECONOMIA]


Il quadro normativo che attualmente disciplina il fenomeno criminoso della illecita captazione di sovvenzioni pubbliche e comunitarie è venuto a delinearsi a più riprese, suscitando non pochi dubbi e perplessità. Paradossalmente, si è passati da una fase in cui il nostro ordinamento era privo di disposizioni atte a disciplinare il fenomeno in esame, ad una fase caratterizzata dal proliferarsi di norme, a volte, almeno in parte, inutili. Invero, la fattispecie della captazione abusiva di sovvenzioni a danno delle Comunità europee ha mostrato una crescente quanto allarmante diffusione, constringendo il Legislatore nazionale e sovranazionale ad intervenire, con conseguente emanazione di direttive, regolamenti, inviti a provvedere, sempre più cospicui.1 In particolare, è stato predisposto un sistema di illeciti proprio nel settore delle condotte a danno del bilancio comunitario. Sulla scorta delle precedenti esperienze di taluni Stati membri, si è dato vita ad un regolamento che reca una vera e propria parte generale dell’illecito penale amministrativo di fonte europea; tanto  che, se da un lato il diritto comunitario e più largamente il diritto dell’Unione dell’Unione europea costituisce un potente fattore di penalizzazione, è altrettanto vero che negli ultimi anni sì è verificata una più attenta riflessione sul ricorso al diritto penale in sede europea, con una specifica incidenza anche sul nostro ordinamento.


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Le frodi Europee 


https://drive.google.com/file/d/0B3gEQ4Y3gvH1MFhpbjloVUlBRG8/view?usp=sharing

domenica 22 ottobre 2017

Che prezzo ha la verità? Un brivido, la paura, liberazione? La vita? [DOWNLOAD DISPENSE APPUNTI RIASSUNTI GRATIS]


Lo sa chi la dice, chi la cerca. Lo sa chi la trova. Lo sa chi va a rovistare nei cassetti delle cose dimenticate della propria anima. Lo sa chi va a cercare tra le azioni e i pensieri della propria esistenza. Lo sa bene anche chi va a cercare nelle stanze chiuse a chiave da altri. Chi guarda dal buco della serratura e aspetta. Qualcuno poi passa e rivela. Lo sa chi ama la coerenza. Chi ama il proprio lavoro. Chi non ha padroni. Chi non si nasconde. Chi è libero. Chi cerca la verità lo fa con una spavalderia buona. Con il sorriso sulla faccia. Lo fa sapendo che la verità che tanto ama, però non piace a tutti. Ti fai dei nemici quando la dici. Ti fai dei nemici quando la scopri. Segni per sempre il tuo cammino quando la sveli a tutti. La verità delle cose grosse. La verità sulla mafia, sulla droga, sulla prostituzione. La verità sul denaro sporco, sulla speculazione. La verità sul più forte. Lo sapeva Falcone, lo sapeva Borsellino, lo sapeva Dalla Chiesa. Lo sanno tutti gli uomini e le donne coraggiose. Lo sanno le persone comuni anche. Anche se la loro verità difficilmente interessa a qualcuno. Se sei un giornalista però allora le cose si complicano. Lo sapeva Daphne Caruana Galizia, blogger maltese, nota come giornalista d’inchiesta anti-corruzione. Lo sapeva che le cose, quando

cerchi la verità, si complicano. Il giornalismo, la ricerca della verità per eccellenza. Quando lo fai in modo corretto, spesso sei esposto a rischi. Quando la trovi, è come avere in mano una bomba, che tiri nel moneto in cui la rendi pubblica. Qualcuno, inevitabilmente, si farà male. Ce lo insegnano fin da bambini. Chi ha mangiato tutto il cioccolato? E quando dicevi la verità, qualcuno finiva in punizione. Daphne aveva aperto ben più di un pensile della cucina di mamma. Aveva scoperchiato un baule pieno di panni sporchi. Li aveva visti, toccati. Un incrocio maledetto tra Malta e Italia. Traffici illeciti. Droga, petrolio. Denaro. Daphne Aveva iniziato a lavorare nel giornalismo alla fine degli anni 80, come editorialista per il Sunday Times of Malta. In seguito divenne editorialista e redattrice del Malta Independent. La sua notorietà negli ultimi anni era legata soprattutto al suo blog, The RunningCommentary, uno dei più letti a Malta. Pubblicava le sue inchieste e i suoi editoriali sulla politica locale, e spesso contenevano attacchi molto duri contro i più importanti politici maltesi. Il suo ultimo post era stato pubblicato mezz’ora prima della sua morte. Fino alla fine quindi. Chi ricerca la verità non dorme mai. E questo è pericoloso per chi cerca di chiudere negli armadi gli
scheletri.Loro hanno fucili, pistole, voci grosse, amicizie pesanti. E poi ancora bastoni, coperte, nascondigli. Bombe. Come ti difendi da tutto questo? Quali sono le armi di chi cerca la verità nella vita? Mi viene in mente solo il coraggio. Hai solo quello. Non fa rumore. Non si vede. Si nasconde dietro a un passo fiero o dietro a un sorriso di chi non teme nulla. Forse chi da bambino ha preso troppo schiaffi quando è stato chiamato a dire la verità, ha smesso di dirla, di cercarla. Forse chi da bambino è stato perdonato per la sua marachella invece che punito, ha saputo maturare quel coraggio. Frutto della benevolenza, della giustizia. Quella contro cui vanno a sbattere i potenti. Non la giustizia terrena, certo. A quella forse, chi crede più? Però chi punisce con la vita le persone che cercano la verità, lo fanno non guardandoti in faccia. Hanno paura. Allora ti sparano alle spalle, ti fanno saltare in aria, da lontano. Non ti guardano negli occhi, perché non hanno il coraggio di chi non si piega alla bugia. Alla fine non vince nessuno, come sempre. Alla fine interviene l’FBI, le procure, i magistrati, i giornali. Della verità restano macerie. Un’autostrada fatta saltare in aria, un’auto bruciata, un rottame esploso in un campo. La paura. Il fumo. Niente. Il silenzio, di nuovo. La verità alla fine non fa rumore. C’è sempre chi urla più forte.
Oppure no.
Franco Quadalti
https://drive.google.com/file/d/0B3gEQ4Y3gvH1Si1FaUpoUXRxV2c/view?usp=sharing